Impiegato di banca di B*, ebbi un amico di nome Teodoro, assai più ricco di me, col quale non mi trovavo continuatamente bensì a periodi di tempo separati da intervalli di interi mesi. A ogni ripresa dei nostri rapporti trovavo la lussuosa automobile di Teodoro ferma ad attendermi davanti all'ingresso della banca, nella quale salivo invitato da Teodoro stesso o dal meccanico in livrea che aveva ricevuto invariabilmente l'ordine di condurmi a casa dal suo padrone. Ci dirigevamo verso le colline che cominciano a nord della città, sulla sommità d'una delle quali, situata in un'amenissima posizione, spiccava la villa di proprietà di Teodoro, una villa in istile neoclassico, di grandi e belle proporzioni, che, per il candore della scialbatura, anche di notte se c'era la luna era visibile non solo da ogni punto della città ma anche da molto lontano nella pianura come se fosse splendente di una fredda luce propria. Tornavamo ogni volta a stringerci la mano con un'assenza di calore, un'indifferenza tali che solo ora capisco quanto fossero piene di studiata affettazione.
Da questo momento ricominciava la nostra vita in comune, alla quale c'eravamo abituati fin dal tempo dell'Università che assieme avevamo frequentato come svogliati e distratti studenti in Legge, e che, adesso, poteva durare un mese o due al massimo, fino a interrompersi bruscamente ma sempre per volontà di Teodoro. Dovevo ogni volta infatti ascoltare le sue appassionate menzogne quando mi dichiarava o che aveva intenzione di assentarsi da B* per un viaggio di qualche settimana di cui, d'altra parte, non mi rivelava né lo scopo né la destinazione, o che desiderava restare in solitudine per dedicarsi tutto a certo suo lavoro letterario al quale da molti anni diceva d'attendere e che tirava sempre in questione per tali circostanze. Con grandissima docilità gli ubbidivo. In attesa che egli si rifacesse vivo, riportavo nel chiuso dell'ufficio, senza eccessivi rimpianti o impazienze, il ricordo di quella vita stravagante e raffinata che Teodoro di volta in volta mi faceva assaporare. E sebbene comprendessi perfettamente che Teodoro, mentendomi, s'era voluto in qualche modo sbarazzare di me, sapevo tuttavia non offendermene, così come non fui mai tentato dalla curiosità di indagare quale fosse intanto la vita di Teodoro durante quegli intervalli di tempo che non ci vedevamo, che altri amici avesse, a quali occupazioni si dedicasse. Una discrezione cautelosa fino allo scrupolo, un geloso ritegno di abbandonarci a qualsiasi effusione di sentimento garantiva la durata indeterminata dei nostri rapporti, della cui necessità non dovetti del resto che ben rare volte soffocare in me l'impulso di chiedermene le ragioni. Credo di essere nel vero affermando che la vita segreta di Teodoro non mi interessava, e questo non tanto per pura indifferenza quanto sopratutto per mancanza di fantasia. In attesa che egli tornasse a me non riuscivo a immaginarlo che sospeso in quell'ultimo gesto, espressione del viso, pensiero, nei quali l'avevo lasciato. Come un immobile morto che potesse rivivere solo quando gli fossi tornato accanto.
Mentre in realtà la vera vita di Teodoro è cominciata per me proprio dall'ultima volta che arrestò la sua macchina davanti alla porta di casa mia dove mi invitò a scendere. Ripartì lanciando la macchina nella notte a tutta velocità, come se fosse inseguito. E da allora l'anno seguente fui trasferito a R* dove son rimasto per questi dieci anni non l'ho più rivisto.
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