Gian Micalessin
Poteva accettare il gioco israeliano, sei mesi di rassegnate trattative e poi la squalifica per manifesta inadeguatezza. Oppure poteva rilanciare, aggrapparsi a Hamas, trascinarlo verso il baratro o verso una via duscita. Per una volta l«impotente e inutile» Abu Mazen, come lo chiamava qualche giorno fa il premier israeliano Ehud Olmert, ha deciso di scegliere e di contare. Il terreno della grande sfida è laula sorda e grigia, fino a qualche minuto prima, del Parlamento di Ramallah. Mentre a Gaza i miliziani continuano ad ammazzarsi a vicenda e i bilanci di due settimane di scontri contano la decima vittima, nelle due aule dellassemblea - collegate via satellite - i capi e i parlamentari di Hamas e Fatah sinfliggono un inutile e tedioso tentativo di riconciliazione. Ma a scuoter la platea stavolta ci pensa lui, il presidente che quando parla assopisce anche gli insonni.
«Qualsiasi palestinese, da Hamas ai comunisti, è daccordo nel volere uno Stato con i confini del 67; questo è quel che abbiamo, tutto il resto son sogni», esordisce il presidente in uno dei suoi rari discorsi a braccio. Poi, agitandosi come di rado capita, lancia la sfida che lascia impietriti i capi fondamentalisti. Con una puntata al buio da giocatore allultima mano, butta sul tavolo la proposta di pace uscita dal carcere di Hadarim e firmata dal leader di Fatah, Marwan Barghuti, e da 120 detenuti tra cui vari deputati di Hamas. In quei 18 punti apprezzati da Fatah e mai smentiti da Hamas i capi reclusi di Hadarim concordano nel sottoscrivere la soluzione dei due Stati accettando implicitamente di riconoscere Israele. Quello palestinese sarebbe costituito da Cisgiordania e Striscia di Gaza e avrebbe come capitale Gerusalemme Est. Abu Mazen, vecchio incallito negoziatore, sa che quello è il suo unico asso nella manica. Lo mette sul tavolo, chiede ai capi di Hamas che lascoltano di approvarlo entro dieci giorni. Li avverte che in caso contrario trasformerà quel documento in un referendum da votare entro quaranta giorni.
Lo chiama avvertimento, ma per Hamas è solo un colpo basso. Ignorando quei 18 punti rinnegherà i deputati in galera, accettandoli aprirà lo scontro intestino con la dirigenza in esilio a Damasco e con gli irriducibili di Gaza contrari ad ogni avvicinamento al nemico. Certo, potrebbero rifiutare le condizioni presidenziali aumentando il livello dello scontro armato con Fatah, ma sarebbe come imporre la guerra civile e autocondannarsi alla delegittimazione sul campo e nelle galere. La vera insopportabile valanga sarebbe, peraltro, il referendum. I sondaggisti palestinesi ripetono da settimane che quei 18 punti sono gli unici in grado di unificare tutti i palestinesi. Gli unici capaci di imporre le dimissioni del governo di Hamas per lasciar posto, in caso di vittoria referendaria, allesecutivo di unità nazionale invocato dai prigionieri di Hadarim. E una vittoria al referendum imporrebbe in maniera ancor più tassativa il riconoscimento dello Stato ebraico.
I capi e i deputati di Hamas capiscono immediatamente la portata della sfida. Qualcuno cerca di esorcizzarla giurando a se stesso e agli altri che il debole Abu Mazen non avrà mai il coraggio di portarla fino in fondo. Qualcun altro, come il deputato Mushir al Masri, preferisce i facili slogan e liquida laut aut presidenziale come «un colpo di mano contro la volontà popolare». Ma lo stesso Abdel Aziz Duaik, il professore messo da Hamas a guidare il Parlamento, ricorda che «affidarsi al giudizio del popolo è uno dei più importanti princìpi della democrazia». Del resto per lala moderata di Hamas, per quella che ha puntato sulle elezioni ma sè ritrovata bloccata dagli irriducibili quando sè posto il problema del graduale riconoscimento del nemico, laut aut presidenziale può anche diventare una comoda ciambella di salvataggio.
Lattuale isolamento diplomatico e finanziario rischia di condannare allo sfinimento il governo fondamentalista, offrendo mano libera ad Israele per qualsiasi assetto finale.
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