Gian Micalessin
Il dado è tratto. Un sì o un no dei palestinesi al «Piano dei Prigionieri» deciderà il 26 luglio prossimo il futuro o la fine del governo di Hamas. Abu Mazen non tentenna. Non si è piega alle richieste fondamentaliste. Ignora le raccomandazioni di chi, tra i suoi, suggerisce di lasciar stemperare la rabbia anti israeliana innescata dalla strage della spiaggia di Gaza. Così, ieri pomeriggio, come promesso, il presidente palestinese annuncia la convocazione per decreto del referendum. Tutti lo sanno, la firma del decreto è solo la ratifica della sfida a Hamas. Listituzionalizzazione della guerra civile in corso nelle strade di Gaza. Lo sanno benissimo i militanti di Fatah che nel primo pomeriggio di ieri seguono i funerali del 39enne Bassam Qutub. Lufficiale della Sicurezza Preventiva è stato ucciso nella notte durante un tentativo di sequestro. È la 17ª vittima della guerra tra Fatah e Hamas. Una faida acuita ora dal sospetto che Israele «agevoli», in qualche modo, i fedelissimi del presidente e le milizie della Sicurezza preventiva. Le voci fondamentaliste sottolineano la tempistica delluccisione di Abu Samhadana, il super ricercato messo da Hamas alla testa della milizia creata proprio per contrastare la Sicurezza Preventiva. Limprendibile Samhadana è stato incenerito dai missili israeliani alla vigilia di una decisione presidenziale capace dinnescare una nuova spirale di violenza. Quanto basta per sospettare una soffiata dei rivali. Così ai funerali di Qolud scatta lennesimo agguato. Quando il corteo blindato di Rashid Abu Shbak, capo della Sicurezza Preventiva, savvicina al funerale decine di colpi di kalashnikov spazzano la folla. Il capo fugge indenne, ma quattro uomini della scorta restano a terra feriti. Unaltra incursione di Hamas dicono i portavoce «fatahisti» per esasperare la tensione.
A livello politico i responsabili di Hamas liquidano il referendum come un «tentativo di golpe». Sottolineano linutilità istituzionale dun piano messo a punto da un gruppo di prigionieri tagliati fuori dalla vita civile e politica. Dal punto di vista del presidente quel progetto politico in 18 punti che approva uno Stato palestinese sui confini del 1967 e consacra il progetto dei due Stati rappresenta il cuneo politico per costringere Hamas a riconoscere il diritto allesistenza dIsraele. Quella mossa, a sentir il presidente, metterà fine allembargo politico finanziario che blocca gli aiuti internazionali e mette in ginocchio i palestinesi. «Non appena raggiungeremo un accordo sul Documento dei prigionieri questassedio finirà», assicura Abu Mazen prima di andare a Gaza per incontrare Ismail Haniyeh e gli altri leader di Hamas. Le parole tradiscono il suo vero obbiettivo. Non un referendum obbligato, ma una data politica per mettere con la spalle al muro Hamas. Del resto, nellattuale clima da guerra civile, Abu Mazen non sa neanche come organizzare una consultazione senza precedenti in dodici anni di storia dellAnp. Ma quelli sono dettagli. Abu Mazen vuole battere il ferro finché è caldo, costringere Hamas alla resa. Ma il ferro potrebbe esser fin troppo caldo. Premere sul gruppo fondamentalista per fargli riconoscere Israele mentre lala militare spinge per la ripresa degli attentati suicidi e tutta Gaza invoca una vendicativa «distruzione» può non essere la mossa giusta. Certo dolore e rabbia si stemperano, le miserie quotidiane provocate dal mancato pagamento degli stipendi restano. Ma a render più difficile, impegnativa e rischiosa la sfida del presidente contribuiscono le annotazioni sprezzanti con cui il Ehud Olmert liquida quel referendum in unintervista a un quotidiano britannico. Per il premier israeliano il referendum su un piano che non rinuncia al diritto al ritorno dei profughi è «privo di significato» è «un gioco tra fazioni, assolutamente ininfluente, incapace di dare il via a un dialogo con i palestinesi».
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