Addio a Revel

In memoria di Jean-François Revel voglio anzitutto ricordare le volte in cui ebbi occasione di frequentarlo: noi due soli, o insieme a François Fejtö, o insieme a Indro Montanelli: che molto lo apprezzava e molto ne era apprezzato. Si trattava, in generale, di occasioni conviviali: nelle quali Revel ci incantava, sempre, per la capacità del paradosso senza stravaganza, per la vena polemica, per la cultura sterminata. Aveva in comune con Montanelli la caratteristica d’essere un liberale strenuo e anarcoide, un demolitore implacabile di luoghi comuni e di tabù ideologici sui quali la meglio intellighenzia campa, e campa bene.
Anticolonialista in gioventù, antigollista negli anni in cui il generale era al potere, Revel aveva frequentato la sinistra senza mai intrupparvisi stabilmente. Ma la sinistra socialista lo considerava uno dei suoi, e infatti, a metà degli anni Sessanta, Mitterrand gli aveva assegnato un posto di ministro nel «governo ombra» che, come capo dell’opposizione, stava allestendo. Prese tuttavia a collaborare all’Express, settimanale spregiudicato e impetuoso che ha segnato profondamente una stagione del giornalismo francese (diventandone poi direttore nel ’78). Come tale fu senza tentennamenti critico del potere, e senza riserve anticomunista: il che lo mise in rotta di collisione con i santoni alla Jean-Paul Sartre. Revel era un fervente sostenitore dell’indipendenza intellettuale, alla Raymond Aron, ma con qualche asprezza in più rispetto al maestro.
Nel 1981 lasciò l’Express per un contrasto con il proprietario della testata, Jimmy Goldsmith: e in un’intervista me ne spiegò le ragioni. La frattura era derivata - nell’intervallo tra due turni delle elezioni presidenziali francesi - da una copertina che raffigurava un Giscard d’Estaing invecchiato e depresso e un Mitterrand radioso. Giscard - che quelle elezioni le perse - ritenne d’essere stato danneggiato e chiese la testa del vice direttore dell’Express, il socialista Olivier Todd, addossandogli l’iniziativa. Revel difese Todd e di fronte all’irremovibilità dell’editore se ne andò (se ne andò con lui anche Max Gallo). «La copertina incriminata - mi disse a Parigi - non era né degradante né sbagliata. Forse gli storici futuri vi vedranno il miglior pronostico di ciò che è poi accaduto». Per dissipare ogni possibile dubbio su una sua possibile adesione al mitterrandismo precisò: «Quel che rimprovero ai socialisti è di non avere esattamente indicato cosa vogliono fare. Non si può sostenere di voler nazionalizzare, e nello stesso tempo di voler diminuire il ruolo dello Stato, e accrescere quello delle regioni. Io non credo al progetto socialista. Mitterrand è stato eletto su un equivoco. Non ha detto con chiarezza se è marxista o socialdemocratico o liberaldemocratico».
Ho insistito su questa esperienza personale perché mi pare dimostri, più di diffuse analisi, quale fosse il metro di giudizio del Revel autore di saggi, del Revel articolista, del Revel direttore. Dovunque e comunque si muovesse scontentava molti e non accontentava quasi nessuno. Amava l’Italia - per alcuni anni risiedette a Firenze, era incantato dalla Toscana e parlava bene l’italiano - ma il suo volume Pour l’Italie, nel quale non mancavano sfoghi al veleno contro i nostri vezzi e i nostri vizi, suscitò un putiferio. Revel fu indotto a qualche atto di contrizione, ma Montanelli osservò che «arrabbiarsi contro Revel è come dargli ragione». Amava la poesia, ma curando un’antologia di quella francese procedette a colpi di machete, sfoltendo il gruppo da nomi del calibro di Pierre Corneille, Claudel, Cocteau, Aragon.
Se la prendeva con la destra stupida e con la sinistra intollerante. Nel libro Né Marx né Gesù faceva professione di socialismo, ma alla sua maniera, ossia riducendo in macerie le ampollosità retoriche delle quali i demagoghi infarciscono le loro tesi. «Il mondo - scriveva - evolve verso il socialismo. Tuttavia il principale ostacolo per il socialismo non è il capitalismo, è il comunismo». Ammirava la capacità di compromesso, ma anche di dissimulazione e di doppiezza (Né Marx né Gesù è del ’76) dei comunisti italiani: «Hanno tutto l’interesse di dare di sé un’immagine liberale che gli faccia guadagnare dei voti. I partiti comunisti sono i soli ad esigere d’essere giudicati in base alle loro dichiarazioni, mentre tutti gli altri partiti politici vengono giudicati in base ai loro atti».
So - perché ne parlavamo - che Revel non era un ammiratore incondizionato degli Usa: del resto, per un raffinato europeo quale egli era, alcuni aspetti della società americana risultavano senza dubbio insopportabili. Ma sapeva separare i pregiudizi istintivi dai giudizi meditati. E allora - in L’ossessione antiamericana - metteva a confronto la concretezza magari rozza di certe posizioni americane e le arrampicate sugli specchi di tanti europei salottieri. «Il problema degli Usa è che sono un mondo reale: vizi, virtù e contraddizioni ne fanno parte in modo fisiologico. L’essere reale è sempre stata una condizione di netto svantaggio nei confronti dei mondi immaginari dei nostri amici intellettuali. È ovvio che se si contrappone una situazione ideale a una reale, la seconda ne esce a tinte fosche». Perfetto.

E se del caso Revel avrebbe saputo con eguale efficacia criticare arroganze e banalità americane.
Abituati come siamo alla sommarietà approssimativa dei talk-show televisivi, il livello polemico e dialettico d’un Revel poteva sembrare sprecato. Naturalmente non lo era. Jean-François Revel ci mancherà.

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