Afghanistan, ennesima fiducia. L’Ulivo: «Ora basta»

Roberto Scafuri

da Roma

Il presidente del Consiglio Romano Prodi come al Mundial. Apprende l’ok alla sesta fiducia mentre sta ricevendo le parti sociali a Palazzo Chigi, e gli si aprono le porte della finalissima: «Ha alzato le braccia in segno di vittoria, esultava come un bambino...», racconterà il leader della Cisl, Andrea Bonanni. «È andata bene, basta. Ve l’avevo detto prima che sarebbe andata così, è andata come doveva andare...», si dà forza il premier.
Il presidente del Senato Franco Marini dà i risultati come al totalizzatore: «Voti reali 160, 162 i presenti, 161 i votanti, 161 i voti a favore... Va bene così?», e il tono innocente tradisce la ferita e il rammarico per la battaglia dell’altroieri, quando l’opposizione lo ha messo sul banco degli imputati. Anna Finocchiaro, capogruppo dei Ds, dopo il voto come una scampata alla roulette russa: «Basta! Questa è l’ultima fiducia, così non si può andare avanti, non si possono stressare in continuazione le aule parlamentari, tra sei mesi non rivoteremo un rifinanziamento alle missioni estere se le cose non cambiano...». Giulio Andreotti come Giulio Andreotti: «Voto con entusiasmo il testo. Per quanto riguarda la fiducia, spero che un giorno mi venga...». Impagabile.
Il governo incassa per la sesta volta il «sì obbligato» della sua maggioranza su provvedimenti essenziali alla propria linea politica (missioni e Afghanistan), e per fortuna le vacanze sono ormai arrivate. I conti e i debiti si colmeranno in sede di esami di riparazione, la finalissima si giocherà in autunno sull’insidiosissimo terreno della Finanziaria. Seguita, a gennaio, da un altro decreto di rifinanziamento alle missioni all’estero (cui potrebbe aggiungersi persino quella in Libano), e anche quelle saranno onde altissime, se nel frattempo la navicella di Prodi non correrà nel bacino di rimessaggio per sanare le sue congenite fragilità. Ieri il porto è stato guadagnato con poco pathos, in fin dei conti: la fiducia sull’intero testo del ddl era un atto scontato, dopo le bagarre su quella per l’articolo 2. Ma quel che resta di grave è il cattivo esempio: chiunque, d’ora in poi, sarà in grado di far ballare la propria maggioranza. Cento e più «Ghino di Tacco» si acquattano dietro ogni angolo, dietro ogni guado oscuro.
Ieri alle 9.30 a Palazzo Madama non erano ancora spenti i fuochi della notte. La Cdl contestava il processo verbale della seduta precedente: «Così com’è scritto non lo votiamo», diceva il capogruppo di An, Altero Matteoli, chiedendo nel contempo la verifica del numero legale. Che difatti mancava («Qui basta che un senatore abbia un contrattempo...», scherzerà Marini). La seduta veniva aggiornata alle 9 e 50. Il capogruppo di Forza Italia, Renato Schifani, ribadiva che il vulnus causato dalla votazione della sera precedente (quando tra i presenti si era conteggiato anche Marini) era «ancora caldo». L’Unione difendeva l’operato del numero uno del Senato e Massimo Brutti (ds) rilevava che la presenza del presidente dell’assemblea «è impliticita: chi presiede è calcolato come presente, la questione regolamentare deve partire da questo dato...».

Scaramucce e distinguo accompagnavano il resto della mattinata fino al voto che rassicurava Prodi e l’Unione: la Cdl non partecipava alla votazione e 161 senatori (quattro a vita: Andreotti, Colombo, Montalcini e il contestatissimo Scalfaro) dicevano «sì» per un’altra volta. Non l’ultima.

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