Allarme rosso

Ciò che sta accadendo in scia o in margine agli scandali bancari del momento è quasi più preoccupante degli scandali stessi: perché rivela coinvolgimenti e inquinamenti politici ampi, profondi, di lunga durata. Ci vanno ripetendo che questa non è Tangentopoli. Forse non lo è ancora. Ma l’ipotesi e la minaccia che lo diventi appare tutt’altro che campata in aria.
Un comunicato della Banca popolare italiana - ex Banca popolare di Lodi, ed ex potentato di Gianpiero Fiorani - ha reso nota l’esistenza di un conto corrente intestato a Massimo D’Alema presso la filiale romana numero 98 della banca stessa. È logico immaginare che l’iniziativa della Bpi sia stata sollecitata dal presidente diessino per dissipare le voci - «prive di fondamento» - che negli ambienti finanziari circolavano. L’esistenza di quel conto è fino a prova contraria - e purché non fosse corredato da particolari agevolazioni - del tutto legittima. (Tale dovrebbe essere, fino a prova contraria, anche l’esistenza di altri conti intestati a soggetti politici). Eppure il presidente d’un grande partito s’è sentito in dovere di darne notizia pubblicamente e ufficialmente.
Perché? Perché - mi sembra di tutta evidenza - il meccanismo dei sospetti e l’automatismo dei collegamenti è ormai tale che ogni contiguità ad un istituto di credito infangato dalle manovre di alcuni rampanti scalatori rischia di essere ritenuta compromettente. Una liaison dangereuse se non proprio una complicità. Tutto questo, lo sappiamo, è temerario e torbido. Ma la tecnica dei sottintesi ammiccanti e delle illazioni infamanti non è stata inventata ora, e non è stata inventata, per essere chiari, dal centrodestra. Dall’affaire Montesi in poi ne hanno fatto l’uso più spregiudicato proprio gli esponenti della sinistra. Molte inchieste - e anche alcune incriminazioni - hanno trovato fondamento, si fa per dire, proprio in ragionamenti tipo «se il conto D’Alema l’ha voluto alla Bpi un motivo ci dev’essere».
Il viluppo delle insinuazioni, delle accuse e delle contro accuse si ingigantisce e si complica per le lotte fratricide che infuriano all’interno degli schieramenti. E in particolare all’interno dello schieramento che nell’etichetta proclama la sua unione ma che è l’arena di sfide micidiali. Il fuoco amico è peggiore del fuoco nemico.
Abbiamo poco o nulla da ridire sul leasing abbastanza lussuoso che D’Alema può permettersi. Non siamo tra i lodatori d’un pauperismo esibizionista, al cui riparo avvengono talvolta malefatte obbrobriose. Se D’Alema ha i mezzi per togliersi lo sfizio di una bella barca, se lo tolga, auguri.
A questo punto l’episodio potrebbe considerarsi chiuso se non dovessimo manifestare una certa sorpresa per la comunicazione dalemiana - o da D’Alema ispirata - che somiglia a un atto di contrizione.

Chi gliel’ha chiesta, o chi gliel’ha imposta? Chi ha propalato le mormorazioni e i sussurri fastidiosi a tal punto che per placarli s’è dovuto ricorrere, se non alla carta bollata, almeno a un comunicato? Ci piacerebbe saperlo.

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