Ancora vittime in montagna: ieri gli ultimi tragici episodi, quando sono stati rinvenuti i corpi senza vita di un ragazzo di 15 anni, caduto in un canalone mentre raccoglieva funghi nei boschi del Lecchese, e di un escursionista bergamasco di 78 anni, sulle Orobie. Escursionisti dunque, camminatori più che scalatori, comunque impegnati sui rilievi delle Alpi e prealpi italiane. Episodi questi che sembrano far traboccare il vaso. Se guardiamo agli ultimi due mesi i dati sono impressionanti: 30 cadute fatali in 50 giorni solo nel territorio nazionale.
Per non dire dei connazionali caduti allestero, come i tre torinesi che hanno trovato la morte in Francia settimana scorsa mentre tentavano di scalare il Grand Pic de la Meije: procedevano in conserva, cioè con la corda in mano non fissata da nessuna parte sul terreno. Uno è caduto e ha portato via tutti. Torniamo in Italia: questultimo fine settimana tre alpinisti sono scomparsi sulle Alpi Apuane mentre percorrevano il tratto finale della Cresta degli Angeli, sulle montagne rese famose dal marmo di Michelangelo, per raggiungere il Monte Altissimo (1589 m): il capo cordata ha costruito una sosta per rendere più sicuro il passaggio e, dopo aver recuperato il secondo di cordata, stava facendo risalire il terzo. Questo deve aver messo un piede in fallo ed è precipitato, strappando gli ancoraggi predisposti male. Così lintera cordata è caduta nel vuoto. «Due di loro sono stati trovati vicini - riferisce Cristian Balducci, guida alpina gestore del Rifugio Orto di Donna nelle Apuane - ed erano i due che si trovavano in sosta. Laltro più staccato è quello che è caduto, trascinando tutti. Devono aver preparato un ancoraggio non proprio ortodosso, con un friend (unassicurazione mobile che si inserisce nelle fessure) e uno spuntone evidentemente instabile».
Ma perché tutti questi incidenti? La montagna non è mai assassina, è severa, questo sì. Il suo non è un ambiente facilmente addomesticabile, e certe cime è bene che se ne stiano lì beate ed isolate, inaccessibili o quasi agli uomini. Ma la loro bellezza seduce e oggi, in epoca di turismo di massa, forse persino di un certo ritorno alle mete di casa piuttosto che a quelle esotiche, anche le nostre montagne hanno visto crescere la frequentazione.
La verità però è che molti si lanciano su montagne ad alto rischio. Attenzione al paradosso: lalpinismo, per esempio, subisce da anni una crisi di vocazioni. Ci sono meno alpinisti nel mondo, ma ci sono sempre più scalatori sulle montagne, specie su quelle difficili. Insomma, gli alpinisti si confrontano più che in passato con imprese ardue. Non più solo gli eredi di Cassin, di Messner o di Bonatti, ma anche quelli della domenica, gli alpinisti fai da te. Basta guardare le statistiche per capire. Diamo unocchiata a quel che succede sui colossi della terra dove gli accessi alle montagne sono controllati e i «censimenti» più sicuri. Fino alla stagione 2005 compresa, la percentuale di cadute fatali sul K2 (dallanno della prima salita, il 1954) era del 27%. Ovvero quasi uno su tre. Lanno scorso, anno tragico sulla «montagna degli italiani», una trentina di alpinisti hanno dato lassalto alla vetta. Di questi 11 sono scomparsi. Poco più di uno su tre. Nella media. Eppure il problema resta e non ci si può nascondere. Sbagliato sarebbe vietare le montagne o chiedere i costi sociali agli alpinisti, come aveva assurdamente proposto tempo fa il Codacons. È vero che la formazione dei corsi del Club alpino italiano non è allaltezza di quella delle guide alpine perché è appannaggio di istruttori volontari, ma è certamente meglio del fai da te che, in questi ultimi anni, ha fatto credere a molti, forse troppi, di poter imparare ad andare in montagna con un semplice manuale di quelli coi disegni, le foto, le istruzioni.
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