AMIS Attacca l’Islam e si autocensura

Dal suo ultimo romanzo lo scrittore britannico ha eliminato due feroci racconti su Irak e 11 settembre

da Londra
Erano attese le solite polemiche che ogni nuovo libro di Martin Amis innesca. Ma questa volta l’autore, certo sollecitato dall’editore, ha spento il fuoco sul nascere, eliminando dal romanzo House of Meetings (ed. Jonathan Cape), due feroci racconti sull’Irak e sull’islamismo che nella penna del più disincantato scrittore britannico sapevano di provocazione.
I due racconti, una riflessione sui meccanismi mentali del terrorismo islamico e una divagazione satirica sulla personalità di un dittatore mediorientale in cui si riconosce Saddam Hussein, erano destinati ad essere aggiunti in coda alla novella centrale del romanzo uscito da poco - e giudicato dai critici inglesi il migliore di Amis degli ultimi dieci anni - in cui lo scrittore illustra, attraverso il triangolo gotico tra due fratelli e una donna ebrea, la morte della coscienza russa dopo gli anni irreversibili dei soviet e dei gulag. Amis ha sempre visto dei paralleli fra l’Unione Sovietica e l’Arabia Saudita, o la Berlino del 1936, più volte discutendo come stalinismo e islamismo poggino sulle medesime regole. E i due racconti aggiunti alla novella avrebbero semplicemente completato un mosaico di immagini speculari.
Evitate le polemiche più immediate, i due racconti già pubblicati sul New Yorker si possono tuttavia leggere su Internet. In The Last days of Mohamed Atta l’autore scava nella psiche di uno dei principali artefici degli attacchi dell’11 settembre, immaginando i suoi ultimi pensieri prima dell’«operazione aerea». Nell’altro racconto, intitolato In the Palace of the End, il narratore è uno dei sosia di un tiranno mediorientale, Nadir the Next, Nadir il prossimo, al quale è imposto di passare le giornate «fra epiche torture e sesso sfrenato con fanciulle bellissime, il tutto filmato per il diletto del dittatore». Era anche un primo schizzo di una novella satirica sull’islam, «un sistema totale e come tale facilmente satirizzabile», in seguito abbandonata perché «con l’islamismo, con il male totale, con il terrore totale e la totale noia, l’ironia, anche l’ironia militante, avvizzisce e muore».
Sulle molte avventure che punteggiano il racconto Amis fa gravare l’ombra del nazismo. Nel Palazzo della fine (richiamo al famigerato Qasr el-Nihayah, sede della polizia segreta baathista fondata da Saddam), l’ala degli interrogatori e delle torture e l’ala della «ricreazione» sono vicine, a sottolineare «il gusto e la fascinazione del tiranno per l’intimità del corpo umano e la sua conoscenza del dolore e come infliggerlo». Costante bersaglio di attentati, il dittatore viene alla fine ucciso dalla paventata toilet bomb, una mina che gli esplode sotto mentre è in bagno.
Più inquietante, perché senza appello, l’analisi dell’autore sull’islamismo. La posizione di Amis nei confronti dell’estremismo islamico e dello scontro Occidente-Islam è ribadita nel suo recente saggio Fede e mente dipendente in cui, studiando il pensiero e il percorso di Sayyd Qutb, padre del fondamentalismo islamico, argomenta come non sia possibile accettare questo indirizzo fanatico, pur rispettando Maometto. Viviamo in un’epoca di «orrorismo», dice, «ogni religione ha i suoi terroristi, ma a farsi sentire è l’islam con un’ondata che invoca la nostra distruzione. Non siamo più di fronte a una “guerra civile” all’interno dell’islam, la guerra è finita e l’ha vinta l’islamismo. L’islam moderato è silenzioso, supino, impercettibile».
Questo Grande balzo all’Indietro, dice Amis, è una tragedia nella storia dell’islam, e ora nella nostra. «I jihadisti suicidi sono un elemento così alieno che l’occidente non è in grado di spiegarlo razionalmente. Ma invece di una lunga sirena di unanime disgusto, non si è alzato finora che un dissonante mormorio di evasione». È la nostra ideologia «occidentalista» a indebolire la nostra percezione, la nostra unità morale e la nostra volontà, afferma lo scrittore. Dobbiamo prendere atto che l’islam non può essere riformato, che «non c’è tempo per una transizione illuminista, oggi occorre una rivoluzione, la liberazione delle donne ad esempio, che vanifichi la logica oscura che nega al mondo islamico il talento e l’energia di metà del suo popolo».
Scavando nel pensiero di un terrorista islamico con lo strumento della fiction, Amis cerca di penetrare una complessità che dopo tutto lo affascina: che cosa pensava Mohamed Atta nelle ultime ore della sua vita. «L’odio per ogni cosa scolpito sul suo volto, dall’interno...», Atta non era come gli altri che agivano sulla spinta di una sublimazione, di un ardore jihadista, ipotizza Amis, «Atta non era religioso, e neanche si interessava di politica. Si era unito ai militanti perché il jihad era di gran lunga l’idea più carismatica della sua generazione. Ferocia e rettitudine unite in una sola parola: se lo sfrondavi di tutte le sciocchezze sulla fede, il fondamentalismo calzava il suo carattere con sinistra precisione». Amis dipinge il ritratto di un uomo sprezzante, nichilista: «Non rideva mai, non perché, come dicevano i compagni, in Palestina si continuava a morire, ma perché non trovava niente da ridere in un mondo che lui percepiva come un’illusione, una beffa irreale».
Mohamed Atta, con le sue due lauree in architettura, il suo inglese eccellente e il suo eccellente tedesco, era un apostata, non si aspettava il paradiso con le vergini.

«Non credeva neanche nel diavolo come forza attiva, ma credeva nella morte. Ecco non più dissimulato il segreto primordiale, uccidere era una delizia divina, e la gioia di uccidere era direttamente proporzionale al valore di ciò che si distruggeva».

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