Amore, odio e fede Nel nome del padre

Amore, odio e fede Nel nome del padre

Il tema è antico, ancestrale ed archetipo per sua intima natura. Il padre, il figlio, il rapporto-scontro più coinvolgente tra quelli che animano quello che Aristotele considerava il nucleo centrale di ogni società: la famiglia.
È un tema che è il senso della oikia, della casa, degli antichi greci, esplica la pietas romana, che si rafforza ancor di più quando si riempie di metafore e narrazioni biblico evangeliche, ovvero con l’avvento del cristianesimo. Ecco allora che il percorso all’indietro che porta alla splendida iconografia del San Giuseppe falegname di Georges de La Tour (una tela che è davvero un’incredibile compendio di simboli) può rivelarsi infinito e ricchissimo di suggestioni.
Se all’inizio della cultura occidentale c’è lo scontro assoluto la violenza, quella del mito di Crono che divora i suoi figli - L’immagine più bella nata da questa narrazione, a metà tra l’incubo e la catarsi, è il Saturno divora i suoi figli di Francisco Goya - o del mito di Edipo che invece deve uccidere il padre: tema che arriva sino alle visioni oniriche di Alberto Savinio (il fratello bravo di Giorgio de Chirico).
Ma poi all’immagine del contrasto subentra anche quella dell’amore, incarnata da Enea e Anchise, non solo materia di Virgilio Publio Marone, ma anche decorazione suggestiva di molti vasi greci. In sintesi: un padre anziano, pio e dalla lunga barba salvato da suo figlio, in parte ultraterreno (in quanto figlio della dea Venere). Metafora precristiana a cui anche il binomio Giuseppe-Gesù ha attinto moltissimo e che ha ispirato direttamente un gran numero di artisti. Si va dal Bernini che nel 1619 realizzò un gruppo statuario sul tema al potentissimo e plastico quadro di Charles-André van Loo del 1729 custodito al Louvre.
E se la pietas - che nel quadro di de La Tour è tutta nel bambino, che fa lume all’anziano genitore putativo, e nello sguardo dell’uomo così carico di stupore verso questo bambino/dio - è figlia in parte di questo binomio antico bisogna anche capire come in essa si innervi il cristianesimo. Il rapporto padre-figlio-divinità si carica di valenze fortissime già nel tema biblico del sacrificio di Isacco. Un sacrificio che prefigura quello di Gesù e incarna tutta la tensione dolorosa del rapporto padre figlio. Una tensione mortale che può essere sciolta solo da un’angelo. Il tema nell’arte sacra è così diffuso che è praticamente impossibile darne conto con qualsivoglia aspirazione di completezza ma sono indimenticabili la formella in bronzo del Sacrificio di Isacco del Brunelleschi del 1401 per il duomo di Firenze (le fu incredibilmente preferita quella molto più statica del Ghiberti) e il sacrificio di Isacco di Raffaello Sanzio ai musei vaticani (circa 1511).
Ma indubbiamente la tensione che nell’antico testamento non è sciolta, in tutta l’iconografia più vicina a quella di de La Tour è pienamente risolta. Eppure il tema di San Giuseppe e del pargolo inizia a diffondersi proprio in quello stesso quattrocento umanistico che con il sacrificio di Isacco affrontava e incarnava paure ancestrali. San Giuseppe diventa una figura centrale dell’iconografia cristiana, dopo essere stato trascurato per secoli, a partire dal 1479 quando Sisto IV introdusse la festa del santo nel calendario romano. Entro i primi anni quaranta del secolo successivo erano state ormai introdotte moltissime confraternite dedicate al santo falegname che divenne anche il patrono di molte città italiane. Ecco allora moltiplicarsi le sue rappresentazioni. Scompare lo stereotipo dell’uomo anziano con in mano un bastone fiorito (tipiche del primo quattrocento) e il personaggio si anima di una sua personalità. Come nella bellissima Natività di Lorenzo Lotto del 1521 conservata alla Galleria dell’Accademia a Venezia. Il santo diventa vivo, diventa un padre attivo, premuroso, preoccupato, conscio... Ne è splendido esempio anche una piccola tavola devozionale di Girolamo Mazzoli Bedoli Madonna con bambino e San Giuseppe (1535 circa): in questa immagine Giuseppe trabocca d’affetto per Gesù, lo fissa con straordinaria intensità, è carico contemporaneamente di dignità e ossequio.
E poi pian piano si affaccia il tema del lavoro, figlio di una nuovissima sensibilità mercantile e produttivista che abbandona le tripartizioni medievali e la netta preferenza per gli oratores e bellatores... Giuseppe al lavoro diventa allegoria artigiana di Dio Creatore, così spesso a Giuseppe viene attribuito il simbolo del compasso e si diffondono le stampe popolari e librarie che lo ritraggono al lavoro. Famosa quella di Cristoforo Bianchi dove Giuseppe è al lavoro aiutato da un piccolo Gesù (illustrazione xilografica dal libro di Jerònimo Gracián, Sommario dell’eccellenze del glorioso S. Giosef, Roma 1597).

Ecco, il contesto culturale che de Latur ha concentrato magicamente in una sola opera era bell’e pronto.
E dopo? E dopo padri e figli hanno continuato ad essere uno dei temi dominanti dell’Arte sino ai giorni nostri, insomma quella candela accesa dal Gesù Bambino di de Latour non si è mai spenta.

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