Andreotti: le mie lezioni di politica al discepolo Turchi

Il senatore a vita ha «adottato» l’ex eurodeputato di An: «Ha una tradizione dal padre al nonno, ma migliore»

Andreotti: le mie lezioni di politica al discepolo Turchi

da Roma

Lui, il saggio di lungo corso, lo guarda come un figlioccio, lo ascolta e lo corregge, gli spiega, lo prende anche in giro. «Ti stanno venendo le orecchie a punta come me», gli sorride. L’altro, il giovane ambizioso e brillante, lo ascolta con rispetto e sta al gioco: «Sì, è vero», risponde, «anche il collo della giacca mi si arriccia sulle spalle». Il vecchio è Giulio Andreotti, classe 1919, arcinoto alle cronache e ormai alla storia. Il giovane è Franz Turchi, che è già stato all’Europarlamento per An, fortemente impegnato in politica. Di lui, il senatore a vita assicura che «ha una tradizione, che come tutte le cose è evolutiva»; aggiunge che «l’esperienza avuta nel Parlamento europeo dimostra un ruolo appreso dal padre e dal nonno, ma migliore». Il giovane (di 38 anni, però) Franz ricorda con emozione quella volta che, aveva 9 anni, tirarono una molotov incendiando casa e Andreotti disse al padre Luigi: «Non ti preoccupare, al ragazzo ci penso io». Da allora è così, Andreotti gli ha impartito il battesimo del fuoco nell’89, mettendolo nell’organizzazione della sua campagna elettorale per le europee: 530mila voti nel Nordest, mica nel Lazio.
Ora si pensano reciprocamente. Franz spesso lo aspetta di buon mattino, per prendere messa insieme. Poi lo accompagna in ufficio, e parlano di politica ovviamente. Colloqui intensi e concentrati, perché le giornate di Andreotti son sempre troppo fugaci. Pur se i ruoli sono indiscutibili, i due si confrontano. Ora accettano di rispondere insieme al cronista. Il punto di partenza non può che essere l’attuale fase della vita politica. È davvero anomala? Andreotti che è un protagonista dai primi passi della Repubblica, la comprende, ne è stupito?
«Io credo che stiamo vivendo un periodo di transizione», risponde Andreotti con tono pacato e tranquillo. E spiega: «Conosciamo bene quel che abbiamo alle spalle, ma non è chiaro quel che vogliamo costruire. Sono state cancellate le strutture della politica, non ci sono più le sezioni, anche i sindacati non sono più protagonisti politici. Oggi conta di più la televisione che in un nanosecondo ti fa vedere quanto accade nell’altra parte del mondo, porta in primo piano le immagini che sono più forti delle parole. Se aggiungiamo a questo la grande novità che non mi pare ancora digerita del tutto, cioè il crollo dell’Unione Sovietica che era l’altro punto di riferimento (per guardarsene o per rimpiangerlo secondo alcuni) ecco che si impone la necessità di un modello nuovo».
Questa transizione però è lenta, va avanti ormai dagli anni ’90 e sta producendo sfinimento. Quali sono i “paletti” che l’esperienza andreottiana suggerisce per questo «modello nuovo»? La risposta è immediata e sicura, evidente frutto di lunghe riflessioni: «Da un lato, bisogna rapportare quasi tutto ad una visione europea, continentale. Dall’altro però, non dobbiamo perdere le caratteristiche specifiche, non solo nazionali ma anche locali. C’è questa grande parola, “globalizzazione”, che viene ripetuta tre volte al giorno. Ma la nostra politica pare refrattaria ad uscire dai confini mentre perde le radici con le realtà locali. D’altra parte, i fresconi e gli intelligenti ci sono sempre stati: quel che cambia, ma di poco, è solo la percentuale». Se Turchi è d’accordo, con questa analisi del maestro? Ci mancherebbe. Però aggiunge una sua annotazione, dice che bisogna guardarsi dalla pulsione di «voler abbattere tutto, per questa ricerca di valori nuovi». «Anche i giovani», aggiunge, «secondo me non vogliono affatto la novità ad ogni costo». Andreotti annuisce e incalza: «Già nel dopoguerra era forte la tendenza a buttare all’aria tutto quello che veniva dal fascismo. Ma era sbagliato. Anche allora, il massimalismo che voleva far fuori pure le cose giuste perché avevano l’etichetta sbagliata, produceva guasti. Tanto da generare il qualunquismo, e il successo di Giannini».
Che l’Italia stia vivendo un secondo dopoguerra? «Di tutto il dopoguerra, il punto più interessante è legato all’esperienza di Vanoni» risponde Andreotti con un guizzo, ed è evidente il parallelo con gli attuali Visco o Padoa “trattino” Schioppa. Tant’è che riprende: «Già allora c’era la mania dei piani, ma quelli di Vanoni funzionavano». Turchi interrompe: «Da consigliare ai tecnici d’oggi, così spocchiosi e dottorali da risultare antipatici alla gente». Andreotti riprende: «Vanoni metteva in evidenza la semplicità del montanaro della Valtellina. Nonostante venisse da un mondo socialista, aveva lavorato con il gruppo di Camaldoli. Ebbe un congedo dalla vita straordinario: morì in Senato».
La famiglia è un altro grande tema di attualità, divenuto anche terreno di scontro politico e culturale. C’è stato il Gay pride a Roma, dopo la manifestazione di San Giovanni. Alla quale Andreotti non mancava, accompagnato ovviamente dal giovane Turchi. Ma più dello “scontro”, il senatore a vita preferisce sottolineare gli “errori” del governo e della maggioranza: «Ci sono stati due errori. Il primo è stato quello di parlare di convivenza anche tra persone dello stesso sesso. A parte che ai miei tempi, di queste cose assolutamente non si parlava... certamente non come motivo di orgoglio. E poi, la stessa dizione di convivenze nel testo governativo, che è ambigua e confusa. La famiglia è la famiglia, quella che si costituisce col matrimonio: questo non è catechismo, è la Costituzione». Turchi concorda: «Nei giovani è cambiato l’approccio per molte cose, ma quello alla famiglia certamente no, è un concetto che rimane intatto». Andreotti, conscio ormai che la battaglia contro i Dico è vinta, rilancia: «Bisogna però attuare il principio del sostegno alle famiglie numerose. Anche questo non è un retaggio del fascismo, sta scritto nella Costituzione».
Dimentichiamo la riforma elettorale? Andreotti è un proporzionalista incrollabile, e spiega: «Il bipolarismo non risponde alla nostra cultura e alla nostra storia, noi abbiamo tradizioni regionali». Turchi annuisce convinto: «Il voto di preferenza è fondamentale». Andreotti riprende: «Per fortuna l’italiano è una lingua fantasiosa, abbiamo inventato il “governo della non sfiducia”. Sa chi andò a spiegarlo agli americani, che non nascondeva l’arrivo al governo dei comunisti? Giorgio Napolitano, che sa l’inglese». Già, gli americani. Andreotti non è preoccupato per le manifestazioni che si sono tenute contro la visita di Bush? «Ripeterò sino alla noia che non c’è più l’Unione Sovietica a soffiare sul fuoco. Noi, quando venne Nixon, avemmo manifestazioni molto violente, tanto che la maggior parte del percorso dovette farlo in elicottero. Mentre quando venne Kennedy, a Napoli fu una festa come per San Gennaro». Nulla di nuovo dunque, Andreotti ricorda che il dibattito parlamentare per l’ingresso nel Patto Atlantico «durò due giorni e due notti» e i parlamentari della sinistra guidarono il corteo che il ministro Scelba lasciò arrivare a Piazza Colonna e non un metro di più. «Corse da me a Montecitorio Nadia Spano sollecitando: vieni fuori, stanno picchiando i deputati. Una buona ragione per restare dentro, le risposi».
Il tempo sta scadendo, Andreotti si lascia andare ad una confessione: «Anche io ho imparato partendo da zero, non conoscevo niente. Quando venni convocato da De Gasperi, domandai: chi è De Gasperi? A scuola non ci avevano insegnato niente, i figli dei deputati antifascisti degli anni ’20 sapevano qualcosa perché avevano imparato dai genitori, ma noi niente, che cosa fossero i partiti nessuno ce lo aveva detto».

Un rimpianto? «Non poter andare allo stadio a vedere la Roma, è dal ’78 che non posso andarci senza scomodare la polizia; e allora lascio perdere». «Lo accompagnerei più che volentieri», chiude il giovane Turchi, «anch’io sono romanista».

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