Assistenza sanitaria, al Lazio la maglia nera

«Viviamo una situazione disastrosa. Disastrosa». Lo ripete due volte scandendo bene le parole Emilio Scotti, presidente della Fadoi (Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti) nel Lazio. E i numeri presentati durante l’inaugurazione del XII congresso nazionale non gli danno torto, purtroppo. La nostra regione, e Roma in particolare, sono fanalino di coda in Italia per quanto riguarda l’assistenza sanitaria. Malati che non vengono accolti negli ospedali o che stazionano giorni e giorni sulle barelle del pronto soccorso. O che, ancora, quando finalmente trovano un letto, vengono sistemati in un reparto diverso da quello che gli competerebbe. E la situazione non migliora quando si parla di dimissioni. La metà dei pazienti anziani non vuole tornare a casa: perché non ha nessuno, perché soffre la solitudine, perché ha trovato in ospedale una nuova famiglia. Inoltre un quarto torna entro un mese a bussare all’ospedale, due terzi dei quali per la stessa patologia. A tutto questo bisogna aggiungere il taglio di 1.400 posti letto per acuti decisi dalla giunta Marrazzo per far fronte a un pesantissimo deficit di bilancio.
Inutile dire, poi, che la stragrande maggioranza dei pazienti sono anziani (sono poco più di un milione gli ultrasessantacinquenni nel Lazio di cui 189mila disabili e 40mila con l’Alzheimer)). «Fra tutti coloro che giungono al pronto soccorso a Roma - continua Scotti, fino a pochi giorni fa primario di medicina interna al San Giovanni - il 17,2 per cento viene ritenuto in condizioni da ricovero. Tra quanti arrivano in ambulanza, poi, 39 su cento sono anziani e 47 hanno bisogno di terapia intensiva». Ma qui cominciano i problemi. I posti letto non ci sono, tanto che solo 4 su 5 rimangono in ospedale. Gli altri, preceduti da un fax, cominciano un viaggio in altre strutture alla ricerca di un posto. In un anno su 380mila ricoveri d’urgenza ben 38mila pazienti sono finiti in una struttura diversa. La situazione più preoccupante a Roma est, dove negli ultimi 12 mesi gli ospedali Pertini, Vannini, Casilino e Alesini, da soli, hanno trasferito in altre strutture 10mila malati per mancanza di letti, in prevalenza di medicina interna.
Ancora peggio accade a chi riesce a essere ricoverato. Uno su quattro finisce sempre in pronto soccorso su una barella. Può passarci la notte ma anche 4-5 giorni. A uno su tre, invece, spetta una barella in corridoio o un reparto dove non si cura la sua patologia. «Non abbiamo ancora assistito - commenta Scotti - a un malato di prostata in ginecologia, ma non mi meraviglierei affatto se accadesse». Già, perché se in medicina interna i posti letto sono drammaticamente pochi, non così è in altri reparti. «Chirurgia e urologia, per esempio, ne hanno sempre. È evidente che occorrerebbe maggiore organizzazione da parte dei direttori sanitari. Basta tagliare posti letto. Sono già pochi, come sarà possibile toglierne altri 1.400 per acuti?». I problemi si moltiplicano quando si tratta di dimettere i pazienti. «Cinque su dieci non vogliono tornare a casa. Li attende la solitudine. E non trovano assistenza sul territorio. Così 1 su 4 torna in ospedale entro un mese. Due terzi dei quali per la stessa patologia». Altro problema quello degli infermieri.

Se l’Italia è sotto la media europea (45 su 10mila abitanti) nel Lazio sono ancora meno (38 su 10mila). Come uscirne? «Serve una cooperazione tra ospedali e strutture, che non sono sufficienti, che seguano la convalescenza».

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