Attenti, nelle piazze germogliò il terrorismo

Non amo gli annunci di tragedie imminenti. So che gran parte degli allarmi lanciati in Italia perché «dietro l’angolo c’è la catastrofe» risultano a posteriori immotivati: dietro l’angolo c’è di solito una stanca ripetizione di ciò che è accaduto un mese prima, un anno prima, un decennio prima. Eppure ritengo che ai disordini del 14 dicembre, e ai possibili disordini di domani, debba essere prestata grande attenzione.
Si cominciò così anche negli anni Settanta: con le piazzate degli universitari, con le prime soperchierie manesche - o di chiave inglese - con l’accusa al governo d’essere reazionario e repressivo. La protesta tumultuosa per la riforma Gelmini - che ha avuto approvazioni, da chi se ne intende, in ogni segmento politico - somiglia tanto (...)
(...) a quelle inscenate una quarantina d’anni or sono. Anche allora gli atenei avevano immenso bisogno, come oggi, d’una «rifondazione concettuale e d’una rifondazione organizzativa». Ma su una strada opposta a quella che venne attuata e che i ribelli d’oggi caldeggiano vociando.
Ci volevano università in cui una meritocrazia equa desse la possibilità ai migliori di imparare e laurearsi esentati da ogni tassa e magari stipendiati. Si ebbero invece università dove minoranze urlanti, smaniose di rivoluzioni future e irraggiungibili imponevano la loro volontà a maggioranze apatiche o intimidite, e pretendevano la promozione per tutti, asini compresi. Trento fu il massimo modello di questo andazzo, molti assaltatori d’antan alle baronie professorali diventarono baroncini. È desolante che oggi ci dobbiamo sorbire slogan più o meno uguali e violenze più o meno uguali, a dimostrazione del fatto che né la storia né l’esperienza sono maestre di vita.
Negli anni «formidabili» la contestazione studentesca si saldò a spezzoni del mondo operaio - la Sit Siemens a Milano - e a estremisti usciti dalla federazione giovanile del Pci di Reggio Emilia. Agli scontri di strada seguirono i primi attentati, i sequestri, le uccisioni degli anni di piombo. La colpa di chi aveva la responsabilità dell’ordine pubblico fu quella di non aver capito in tempo la gravità delle avvisaglie e d’aver perso l’occasione per debellare definitivamente la minaccia. Nella primavera del 1974 esistevano le condizioni tecniche per assestare un colpo di grazia al terrorismo, mancavano invece le condizioni politiche.
Con Montanelli ho scritto: «Tutta la sinistra legalitaria si strappava le vesti non per l’apparire alla ribalta del Partito armato, ma per le già avvenute o possibili prevaricazioni della polizia contro inoffensivi e benintenzionati anche se turbolenti apostoli della rivoluzione. Non il partito armato faceva paura, ma la polizia armata della quale infatti si chiedeva a gran voce, in cortei e manifestazioni, il disarmo... Così il momento magico fu lasciato passare senza che fosse sferrata l’offensiva finale».
Non siamo a quel punto, anche perché non esiste attualmente, attorno agli incubatori di violenza, la simpatia e la solidarietà di cui troppi intellettuali di quella stagione diedero solenne attestazione. Maroni è risoluto, mi pare sappia trovare una strategia equilibrata tra le indulgenze ipocrite delle anime belle e i propositi ruggenti del duro Gasparri. L’idea del Daspo per i professionisti del disordine è ottima. Non si tratta di limitare la libertà di pensiero e di opinione, ma di controllare, e se del caso rendere inoffensivi, gli invasati attivisti della provocazione e dell’aggressione.

In un’Italia dove il povero Giuliani viene spacciato per apostolo di libertà immolato alla stessa, bisogna dire chiaro e forte che quello di vestire la violenza di nobili ideali è un vecchio e logoro trucco. Addio anni Settanta, il passato è passato, non vogliamo che ritorni.

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