Katherine Johnson, la donna che mandò l'uomo sulla luna

Fuoriclasse della matematica già da adolescente, Katherine Johnson venne ingaggiata dalla Nasa: gli astronauti chiedevano solo di lei prima di andare in orbita

Katherine Johnson, la donna che mandò l'uomo sulla luna

Sbatte praticamente ogni porta, ribadendo che lui sul quel congegno non ci sale se prima lei non controlla ogni singolo calcolo. Lui è John Glenn, il primo americano pronto a essere spedito nello spazio per compiere un'orbita terrestre. D'altronde, da queste parti, quel giretto di Yuri Gagarin è rimasto simpatico come una spinta dalle scale. Bruciati dai russi. Serve una pomposa rivincita. Però adesso che è un freddo giorno di febbraio del 1962, Glenn punta i piedi. Ha percorso tutto quel gigantesco reticolo di uffici affollati da computer e calcolatrici per raggiungere qualcuno che i calcoli li sa fare ancora meglio. Finalmente si siede di fronte a Katherine Johnson: "Mi fido solo di te. Vado in orbita se mi assicuri che torna tutto quanto".

Una bambina prodigiosa

Classe 1918, Katherine cresce in Virginia da genitori afroamericani e subito capisce che le toccherà sgomitare più del dovuto, considerato che, tutt'intorno, i pregiudizi razziali sono una pianta infestante quasi impossibile da estirpare. Però ha un vantaggio. Flirta con i numeri al punto da lasciare basiti maestre e professoresse. In quella sua mente adolescenziale crepita la scintilla della matematica. Colate laviche di numeri decriptati. Equazioni a colazione. Studi di funzione che cedono il passo quando la riconoscono davanti al foglio.

Così a soli quattordici anni è già diplomata, mentre le compagnucce, quelle "normali" e provenienti dalla upper class a stelle e strisce, restano tutte al palo. A sedici si iscrive all'università, ma il suo talento è debordante. Pare che strapazzi gli accademici. E che quel che impara non gli basti. Stordito, l'ateneo dispone che vengano inseriti nuovi corsi avanzati per dissetare la sua volontà di conoscenza. Johnson trangugia tutto quanto: laurea cum laude a soli diciotto anni. Fuori scocca il 1937. Kate è già un dirompente prodigio.

Nasa, la chance della vita

A volte il destino ci mette un mucchio di tempo per organizzarsi. Katherine si sposa, mette su famiglia, inizia a insegnare matematica nelle scuole. Tutti passaggi emotivamente robusti, ma in fondo agli occhi, quando impila i registri nella sala professori, lo percepisce che quel suo grande talento si sta gradualmente dilapidando. Poi una sera il fato si ricorda di essere tempista. Johnson sta piluccando un antipasto con un gruppetto di amici, quando uno di loro se ne esce con una notizia che le fa andare il boccone di traverso. "Alla Naca (acronimo della futura Nasa, ndr) cercano donne capaci di fare calcoli veloci con la mente". Touché. Sembra proprio il suo profilo. E quando la grande chance bussa, serve il coraggio di andare alla maniglia. Tutti premuti in macchina allora, alla volta degli Hamptons. Quando arriva le comunicano subito la mansione: niente spazio, troppo presto. Dovrà lavorare sulle scatole nere degli aerei. Lei comunque sorride forte. Ora è il 1953. Ora lavora per il governo degli Stati Uniti.

Quel primo giretto nello spazio

Adesso torniamo dritti su John Glenn. Ha raggiunto la palazzina appartata dove si trovano tutti i dipendenti di colore. Accanto a Katherine lavorano altre due donne geniali, Dorothy Vaughan e Mary Jackson. Le chiamano "Colored Computers - computer di colore". Segno che l'uguaglianza è ancora un miraggio. Lui però non ha tempo per soffermarsi sulla questione dei diritti, che pure salirà potente alla ribalta per il lavoro compiuto da queste matematiche doppiamente discriminate, in quanto donne, in quanto afroamericane.

Lui vuole portare a casa la pelle. E anche se i calcoli sono già stati eseguiti al millesimo dall'attrezzatura elettronica in dotazione, anche se le equazioni orbitali risolte per mandare a fare un giretto intorno al globo il modulo Glenn's Friendship 7 tornano tutte, lui comunque non ci sta. Pretende che Katherine verifichi tutto quanto. A mano, con carta, penna e calcolatrice. I cervelloni della Nasa si stringono nelle spalle. Come fa a fidarsi più di questa donna che dei computer? Sta di fatto che Glenn non parte finché da Johnson non arriva la luce verde. La missione che ne segue è un autentico successo.

Spedire l'uomo sulla luna

Computational Center

Poi arriva il momento di alzare la posta. Un giorno J.F. Kennedy alza la cornetta e la spiega semplice: "Ok ragazzi, grazie di tutto. Ora però voglio la luna". Alla Nasa non hanno dubbi: per capire come agganciare l'orbita del satellite, andare e tornare, meglio mettere Katherine in prima fila. Lei inforca di nuovo gli occhiali, batte sulla calcolatrice, sfrigola sul foglio con la sua biro. Poi le serve anche la gigantesca lavagna del centro Langley. Neil Armstrong la benedice a lungo. Prima di partire osservano tutti la solita prassi: "Ok, calcoli fatti, ma è meglio se li rivede Johnson". Missione impeccabile. Un'altra qualità di Kate è quella di riuscire a rimanere lucida sotto pressioni gigantesche. Come quando si tratta di far tornare sani e salvi a casa gli astronauti dell'Apollo 13, mozzicato da un modulo di servizio esploso.

Il diritto di contare

“Nella mia vita ho contato di tutto. Dai gradini della chiesa, al numero di posate e piatti che ho lavato… Tutto ciò che si poteva contare, l’ho contato”. Sono le sue parole nel 2015 quando, visibilmente emozionata, riceve la National Medal of Freedom, la maggiore delle riconoscenze civili americane. Perché il suo impegno non ha concorso soltanto al buon esito di missioni che hanno stravolto la storia dell'umanità. Le sue doti, Kate, le ha sempre messe al servizio di un messaggio più alto: "Non esistono persone di categorie differenti e ve lo dimostro".

Johnson è scomparsa nel 2020. La sua storia, come quella delle sue colleghe, nel 2016 era diventata un film di culto: "Il diritto di contare". Nel frattempo, a Langley, dove aveva passato tutto quel tempo a calcolare con estremo profitto, le avevano anche dedicato il centro di ricerca.

Lei era apparsa radiosa, seppur costretta in carrozzina. Probabilmente, quel giorno, a fianco della grossa targa che portava il suo nome, deve aver pensato che il risultato della sua vita è stato, in fondo, proprio quello esatto.

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