Se pensiamo alla “corsa per la conquista dello Spazio” ci viene in mente un periodo storico di gravi tensioni, in cui il mondo era sostanzialmente diviso in due grandi blocchi contrapposti, quello rappresentato dagli Stati Uniti e quello legato all’Unione Sovietica. Al loro interno questi due “universi” paralleli erano caratterizzati da ulteriori attriti ben narrati in libri e film di successo. Nel caso degli Stati Uniti una delle spaccature sociali più profonde era la segregazione razziale. L’uomo voleva raggiungere la Luna, visitare (e, magari, colonizzare) altri mondi. In questi obiettivi metteva tutta l’intelligenza di cui era dotato, raccogliendo risultati straordinari. Voleva infrangere le barriere dei limiti umani nel cosmo dimenticando, però, che i primi, veri ostacoli si trovavano già sulla Terra. Il 12 aprile 1961 il cosmonauta russo Jurij Gagarin è il primo uomo ad andare nello Spazio con la navicella Vostok 1. Gli Stati Uniti tremano. I sovietici sono riusciti a soffiar loro da sotto il naso un primato leggendario e la Guerra Fredda si fa più aspra. È necessario surclassare i rivali il prima possibile. Il 20 febbraio 1962 è l’americano John Glenn a orbitare per 3 volte (ne erano previste 7) intorno al nostro pianeta nella capsula Friendship 7.
Fin qui la Storia scritta e fatta da uomini. Molti non sanno che dietro alla realizzazione e al completamento delle 3 orbite della capsula Friendship 7 ci furono 3 donne di colore dall’eccezionale talento per la matematica. Questa è la vera storia della corsa allo spazio americana raccontata nel film “Il Diritto di Contare” di Theodore Melfi (2016). Il titolo originale è “Hidden Figures” e fa riferimento al fatto che l’aiuto fondamentale di queste scienziate e la loro stessa presenza è rimasta nascosta dietro a quel periodo storico difficile e in cui la parte maschile e bianca della società aveva un peso schiacciante nella realtà americana. “Figures” vuol dire anche “cifre” ed è associato proprio all'abilità con i numeri delle protagoniste. Il titolo italiano, invece, gioca sul verbo “contare”, che si riferisce non solo ai calcoli matematici di queste donne molto intelligenti e caparbie, ma anche alla loro emancipazione avvenuta proprio attraverso la scienza. Come riporta il sito Oggi Scienza, senza il contributo di Katherine Goble Johnson, Dorothy Vaughan (interpretata da Octavia Spencer) e Mary Jackson, la Nasa non sarebbe riuscita a recuperare terreno nei confronti dell’Unione Sovietica. Le tre protagoniste sono laureate in Matematica e lavorano nella West Area Computing Unit del Langley Research Center di Hampton, in Virginia, un ambiente di lavoro dedicato alle donne di colore in base alle leggi sulla segregazione razziale. Le scienziate sono dei veri e propri calcolatori umani a cui spetta il compito di verificare i calcoli realizzati da altri colleghi.
Il loro ruolo occupa il gradino più basso nella gerarchia del Langley Center. Dopo la chiusura della West Area Computing Unit Katherine Johnson si ritrova a lavorare nella Space Task Group, dove ha il delicatissimo compito di calcolare i lanci e le traiettorie dei voli spaziali. Nel film la Johnson (interpretata da Taraji P. Henson) è costretta a lavorare gomito a gomito con Al Harrison (Kevin Costner) e la sua squadra che, però, non si fidano del suo lavoro. Katherine è la prima afroamericana del team e molti suoi colleghi non le “perdonano” di essere una donna, bravissima nel suo lavoro e, per giunta, di colore. Anche le amiche Dorothy e Mary si ritrovano in posti di maggior responsabilità, ma costrette a sfidare il pregiudizio e il disprezzo della loro epoca e di quanti sottovalutano le loro capacità (anche in termini economici, visto che Dorothy Vaughan viene chiamata a sostituire il supervisore del settore calcolatrici ma non ottiene la promozione per questo impiego e continua a lavorare con una paga ridotta). Per Katherine le cose cambiano dopo un rimprovero per le continue assenze dal lavoro. La scienziata si difende: per raggiungere l’unico bagno destinato ai neri deve percorrere un chilometro a piedi. Da quel momento Al Harrison abolisce la segregazione nel centro da lui diretto e si rende conto del preziosissimo contributo di Katherine Johnson.
Proprio a lei John Glenn affida la verifica dei calcoli sulla traiettoria del suo volo nello spazio e sempre grazie a Katherine l’astronauta ritorna sulla Terra sano e salvo nonostante i problemi allo scudo termico che lo costringono a interrompere il “viaggio” dopo solo 3 orbite intorno al nostro pianeta. Il film è tratto dal libro “Hidden Figures: the Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race” di Margot Lee Shetterly (l’edizione italiana è stata pubblicata da Harper Collins). La storia che vediamo sullo schermo non è perfettamente aderente alla realtà: per esempio il personaggio interpretato da Kevin Costner non è mai esistito e alcuni ostacoli affrontati dalle protagoniste sono stati accentuati per far capire la realtà dell’epoca e le sfide che le protagoniste dovettero affrontare. A tal proposito Il Post riporta un commento della Johnson che, a proposito della segregazione razziale, disse: “Non sentivo la segregazione razziale alla Nasa, perché tutti facevano ricerche. C’era da fare una missione e noi ci lavoravamo. Sapevo che la segregazione c’era, ma non la sentivo”.
Infatti nel libro la scienziata continua a usare i bagni riservati ai bianchi anche quando qualcuno le fa notare che non potrebbe (e, in effetti, non vi era nessun cartello che lo specificasse, ma non dimentichiamo che queste forme di discriminazione esistevano, eccome). Nonostante queste modifiche fatte per esigenze di copione, la storia non perde di credibilità, ma racconta un periodo storico molto complicato e ben documentato in cui vissero donne che riuscirono a scardinare il potere di pregiudizi altrettanto tangibili.
A proposito del film e di queste coraggiose figure femminili Michelle Obama ha detto: “Hanno dato un’importante lezione di vita perché non hanno dato ascolto a chi dubitava di loro o a chi le odiava. Erano lì e hanno dato il loro aiuto”.
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