Un’avventura nel grande libro della vita

Per alimentare l’intelligenza e la fantasia dei giovani non bastano fumetti o videogiochi. Nulla come la scoperta dei capolavori di Verne o Kipling aiuta a crescere

Quante rughe c’erano sulla faccia del vecchio Achab? Comandava una baleniera, il Pequod. Il nome della nave sapeva di terraferma: era quello di una tribù algonchina (i «Distruttori») del Mystic River, Connecticut, sterminata dai coloni della Nuova Inghilterra. Ma tutto il resto era salmastro. Dal porto d’armamento, Nantucket, uno scoglio isolato a 30 miglia marine da Cape Cod, dove secondo la leggenda indiana un’aquila aveva depositato il primo sfortunato abitante, un pellerossa in fasce; all’attrezzeria - caviglie, pulegge, bozzelli, barra del timone - tutto in puro avorio oceanico, ossa e mascelle di cetacei; al suo stesso destino, che simile a una tempesta di Capo Horn o a un gorgo del Maelstrom di Norvegia, catapulta il veliero tra le fauci implacabili di Moby Dick, la balena bianca. Vento e salsedine avevano trivellato la faccia del capitano, come il legno del suo bastimento. Una cicatrice biancastra contornava un occhio, dal cuoio capelluto al mento.
Quante rughe? Nessuno lo sa. L’autore del romanzo, Hermann Melville, non lo svela. Ci narra solo che una, più profonda, incideva la fronte. Un giorno Achab scese, zoppicando sulla sua gamba d’avorio (quella vera l’aveva maciullata Moby Dick), nell’officina del fabbro di bordo, Perth, sempre avvolto di scintille come un albero di nave dalle procellarie in volo. Gli domandò se poteva spianargli a martellate quella tacca nell’osso. Era disposto a porre la fronte sull’incudine. Ma Perth, con calma, rispose che la sua mazza aveva il potere di lisciare l’acciaio fuso dei ramponi e delle fiocine, non le piaghe che solcavano la carne, che provenivano dall’anima. Erano il male, la vendetta, che incrinavano Achab, dall’interno. Chi legge la pagina, deve immaginarsela da sé, quella geografia di rughe sul ghigno demoniaco. Ma non scorderà mai il particolare di quell’intaccatura più maligna, per abolire la quale Achab era pronto a sottoporsi alla forgia.
La mente umana, e ancor più quella in formazione, dei ragazzi, degli adolescenti, è avida di dettagli. Me lo confermano decenni di lavoro da insegnante. Lo scorcio concreto, la circostanza, l’aneddoto sono strumenti vividi di stimolo. Sarà perché nel nostro Dna, di cacciatori e agricoltori ancestrali, la passione del particolare - una foglia che vibra, segno di preda; l’inclinazione di una stella, indizio di semina - conserva un po’ del suo carattere di sopravvivenza. A una condizione: che quel dettaglio, quella precisa sfumatura siano plausibili centri di gravità di un insieme coerente, di un edificio ben connesso di esperienza, perni di un ingranaggio che manifesta, piena e scintillante, tutta la sua logica d’esistere.
Quella ruga tormentosa è Achab, la chiave per capire la sua storia di tenebra, la caccia disastrosa al fantasma Moby Dick, che grava nelle profondità del Pacifico, ma soprattutto nelle pieghe del cuore. Non troveremo mai tutto questo nella piatta totalità del fumetto, nell’incastro meccanico del videogame, che ben poco lasciano all’immaginario. Il territorio di caccia, la palestra educativa, per un ragazzo, restano i racconti degli autori. Libro versus playstation. Sfogliare pagine versus smanacciare joystick e tasti direzionali. Righe stampate, silenti, versus grafica in tre D e boati stroboscopici. Chi nega la gradevolezza di ciò che scorre su uno schermo (consolle o tv), nella policromia dei pixel? Uno sguardo alla lista dei titoli proposti in edicola, molto opportunamente, dal Giornale, un scelta dei classici «per ragazzi», da Il giro del mondo in 80 giorni, a Zanna Bianca, a Tre uomini in barca, ci suggerisce che certi meccanismi di coinvolgimento sono comuni tra la pratica della lettura e quella dell’immagine ludica: viaggio (in tempi e spazi), avventura, sfida, identificazione, ironia. Radicalmente diverse sono la profondità, la ricchezza, la potenza emotiva degli elementi.
Il viaggio come fuga dall’ordinario regna sulle pagine di Verne. Ma qui ogni passo dei protagonisti - siano Phileas Fogg in lotta contro il tempo, il capitano Nemo con il suo Nautilus sui fondali del pianeta, Michel Ardan dentro il proiettile sparato alla luna - è incastonato in un teatro geografico reso eccitante dal suo contrasto tra la fiction, che sappiamo fantastica, e la nettezza, la verificabilità dei dati. Quella materia che sui banchi, in aula, è così irta di nomi, ingessata in cifre e statistiche, insaporisce tutta la pietanza dell’avventura, con il colore dei costumi, l’affresco dei paesaggi, il pertinente cenno a un uso esotico. Pagina dopo pagina, diventiamo esperti del mondo. Anche il videogioco ha la sua anima nella sfida. Destra, sinistra, avanti, indietro, scelte rapide sui pulsanti. Ma con il libro giochi in grande. Non entri negli schemi. T’immergi, come Alice, nelle meraviglie. Curiosità e sorpresa saranno il tuo mouse, la tua barra spaziatrice. Molti personaggi dei videogiochi catturano simpatia con il surreale, il bislacco, l’ambiente strampalato. Ma restano tigrotti di carta, piccoli buffoni ripetitivi, marionette temporanee che sfumano e si riaccendono alla pressione di End o di Start.
Nessuno ha la travolgente ironia di Gulliver. I suoi viaggi fra il troppo grande e il troppo piccolo datano a tre secoli fa: ma la stupidità degli uomini, l’intolleranza, la miopia morale, le piccinerie, le ridicole e tragiche pecche sono tutte contemporanee, e l’eroe nomade di Swift ce le smaschera con la forza del simbolo, chiaro e forte a ogni età. Certo, al libro i ragazzi vanno invogliati e guidati.

È un compito di affetto, tradizione e civiltà, che tocca agli adulti. Devono crederci, perché è un immenso progetto di qualità. Nipoti e figli che maturano a un livello superiore alle manovre svelte, all’abilità del colpo d’occhio, che pure riteniamo utili. Si chiama cultura.

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