Banche italiane da prede a predatori

Più che l'amor poté il digiuno diceva il conte Ugolino a Dante e Virgilio. Anche per Geronzi e Capitalia più che la convinzione poté la paura di essere preda di alcuni player bancari che già ronzavano intorno all'Abn Amro, il primo azionista del gruppo romano oltre che proprietario della banca Antonveneta. Preda per preda, è stato il ragionamento di Geronzi, tanto vale che scelga io il mio predatore con il quale negozio assetti di governance del nuovo gruppo Uni-Capitalia, che diventa così la prima banca italiana per capitalizzazione e la quinta europea. E che sia stata la preoccupazione ad accelerare questa fusione, lo dimostra, tra le altre cose, che essa avviene senza ancora un piano industriale che porrà certamente una serie di problemi sull'integrazione per aree di business e sacrifici sul terreno dell'occupazione.
Non c'è dubbio, però, che l'operazione è complessivamente positiva. E lo è non solo per Capitalia ma anche per la stessa Unicredit che ha toccato con mano le difficoltà ad espandersi per via esterna, sui mercati internazionali, come testimonia il gelo francese sulla eventuale fusione o acquisizione della Société Générale. Con l'operazione «testuggine», insomma, le maggiori banche italiane (Intesa, S. Paolo, Unicredit e Capitalia) hanno rafforzato la propria posizione sul mercato domestico e per le loro dimensioni non sono più prede ma predatori sui mercati mondiali. Se a questa operazione si aggiunge quella della fusione tra la Banca Popolare di Milano e la Popolare dell'Emilia Romagna fortemente voluta da Roberto Mazzotta e da Guido Leoni, il sistema creditizio italiano non è più un mercato nel quale chiunque può fare shopping a piacimento.
Il rimpianto è che per miopi lotte di potere si è facilitato l'acquisto di Antonveneta da parte degli olandesi dell'Abn Amro e, cosa ancor più sciocca, si è impedito la costituzione di un terzo grande polo bancario italiano fatto da Bnl-Montepaschi e Unipol. Responsabilità diffuse, non ultima quella della Banca d'Italia, hanno preferito dare la Banca Nazionale del Lavoro ai francesi piuttosto che favorire un'aggregazione italiana nel silenzio colpevole dei maggiori partiti dell'attuale governo. La storia, come si sa, non si fa né con i se né con i ma e quindi contentiamoci del fatto che altri grandi gruppi bancari italiani non abbiano fatto la fine della Bnl.
A fusione fatta, però, due grandi questioni campeggiano sul futuro del nostro sistema creditizio. La prima è quella del rilancio della concorrenza a favore dei consumatori messa a rischio dall'intreccio, via Generali, tra Uni-Capitalia e Intesa-S. Paolo. L'altra, ancora più delicata, è la crescita esponenziale di un potere finanziario che in maniera eccessivamente discrezionale può fare la fortuna di alcuni imprenditori affossandone altri non contagiati dal «servo encomio» e non utili alla filiera del nuovo potere economico.
Una questione democratica sulla quale la politica e per essa il Parlamento, deve poter accendere i riflettori ogni qualvolta ne ricorrano i termini chiamando i responsabili dei due grandi gruppi bancari a spiegare all'opinione pubblica ed al mercato le proprie scelte e le eventuali «tutele».

Su questa strada è anche giunto, forse, il tempo di recidere i legami tra le strutture finanziarie, bancarie e assicurative tra loro intrecciate, con i grandi organi di informazione. Un'anomalia, questa, tutta italiana che non ha analoghi riscontri negli attuali assetti democratici dell'Europa comunitaria. Ma questa sarà la battaglia di domani.
Geronimo

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