Il Tesoro cede sul mercato un altro 12,5% di Mps. Si compie così una nuova tappa del processo di uscita dal capitale dell’istituto senese, dopo che lo scorso novembre era stata ceduta una quota del 25% ricavando 920 milioni di euro. La procedura scelta è quella dell’accelerated book building, che prevede la cessione a investitori qualificati italiani ed esteri fuori mercato. L’operazione è avvenuta attraverso un consorzio di banche costituito da BoFa Securities, Citigroup, Jefferies e Mediobanca nel ruolo di consulenti. Al ministero dell’Economia ora rimane una fetta del 26,7 per cento. L’istituto senese, che si è apprezzato molto in Borsa con il piano di risanamento realizzato dal ceo Luigi Lovaglio, presidente Nicola Maione, ha affrontato il collocamento con una linea guida di prezzo tra 4,15 e 4,25 euro, quindi con uno sconto minimo sulla quotazione di Borsa. Il Mef dovrebbe incassare una cifra oltre i 650 milioni con il quale rientrerebbe quasi interamente dagli 1,6 miliardi versati per l’aumento di capitale a novembre 2022. Il Tesoro si impegna a non vendere ulteriori quote per 90 giorni senza l’ok degli advisor e salvo esenzioni.
Intanto, ieri un report di Barclays è tornato a tratteggiare Unicredit come protagonista del risiko bancario. La strategia dell’istituto guidato da Andrea Orcel è sempre la stessa: aspettare il momento giusto (e i prezzi giusti) e poi mettere a segno una o più acquisizioni. Di recente Orcel ha delineato un identikit più preciso della potenziale preda: deve generare sinergie e avere un «ritorno di almeno il 15%», stante che i radar dell’istituto restano attivi su Est Europa, Germania e Italia. Partendo da qui, gli analisti britannici hanno valutato e soppesato i dossier che il ceo di Unicredit potrebbe valutare. Del resto, parole del banchiere, «sarebbe una delusione» se il capitale in eccesso (quantificato dagli analisti in 13,2 miliardi) non trovasse il modo di essere impiegato almeno in parte per espandere il business dell’istituto. Secondo Barclays, Unicredit ha la capacità di «acquisire in contanti la maggior parte dei suo omologhi più piccoli mantenendo una riserva di capitale». Guardando all’Italia, il ritorno sugli investimenti potrebbe superare il 15% in almeno tre casi: Banco Bpm (con un range tra il 12 e il 16%), Mps (13-17,2%) e Bper (14,9-16,5%). Gli analisti fanno notare che un altro criterio chiave per individuare il giusto target sarebbe quello che consentisse a Unicredit di mantenere la sua politica sui dividendi (quindi con un pay out del 90%). Anche in questo caso la lista si restringerebbe sulle stesse tre banche: Banco Bpm, Mps e Bper.
Barclays poi si sofferma su Mps, che ora ha molti motivi per essere appetibile. A partire dai 2,6 miliardi di Dta, una sorta di credito d’imposta, che «ridurrebbe il costo di un’acquisizione per il compratore e accrescerebbe il ritorno sull’investimento». Sebbene abbiano sempre negato interesse, anche Bpm e Bper avrebbero ritorni unendosi a Mps. Anche se, a differenza di Unicredit, per comprarla dovrebbero pagare parte del prezzo in azioni e questo manterrebbe il governo con una partecipazione residua nell’entità aggregata. Un’alternativa potrebbe essere che un investitore acquisisca un pacchetto del 20% al di sotto della soglia d’Opa (il 30%) come ha fatto Unipol con Bper e Popolare di Sondrio. L’occasione potrebbe essere un nuovo collocamento del Mef che potrebbe arrivare prima di fine 2024, anno entro il quale l’Unione europea si aspetta un’uscita dal capitale da parte del Tesoro.
Gli analisti di Barclays, anche alla luce di queste considerazioni, danno un giudizio positivo sulle banche italiane in particolare per Unicredit (che ha opzioni anche in Romania con un possibile interesse per Brd, la sussidiaria di Société Générale); Mps che è un target attraente per molti istituti e Banco Bpm che può essere preda di Unicredit e al tempo stesso predatore di Rocca Salimbeni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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