Ma Barack fa il duro soltanto a parole

Forse Obama comincia a realizzare che la sua speranza di ingraziarsi l’islam con un atteggiamento rispettoso fino alla sottomissione, che la sua rivoluzione culturale circa il ruolo degli Usa nel mondo, non placano il terrorismo islamico e non mitigano la sua ambizione di dominare il mondo

Quand’è che sapremo dalle labbra del presidente degli Stati Uniti che il nemico che è deciso a combattere è la jihad, la guerra santa che in maniera multiforme, sottile ma organizzata e massiccia, schiera i suoi uomini sulla linea del fuoco degli attentati di New York, di Londra, di Madrid, di Bali, di Buenos Aires, di Mombasa, di Gerusalemme... lungo la frontiera più vasta e pervasiva della storia di ogni altra guerra? Non è un problema linguistico, ma di grande sostanza: senza identificare il nemico, non lo si può battere.
Il presidente Obama dopo l’attacco fallito al volo 253 di Natale, sembra scosso; ha risposto duramente alla sua ministra degli interni Janet Napolitano che non è vero affatto che «il sistema ha funzionato». Poi, ha ordinato di riorganizzare il sistema di sicurezza degli aeroporti; tanto si è reso conto di quanto fosse importante, unito ad altri, il segnale proveniente dal giovane terrorista nigeriano addestrato in Yemen, da chiudervi l’ambasciata.
Forse Obama comincia a realizzare che la sua speranza di ingraziarsi l’islam con un atteggiamento rispettoso fino alla sottomissione, che la sua rivoluzione culturale circa il ruolo degli Usa nel mondo, non placano il terrorismo islamico e non mitigano la sua ambizione di dominare il mondo. Forse ha anche capito dalla protervia sia qaidista che iraniana che il suo cerimonioso approccio rende l’islam sia sunnita che sciita più deciso e protervo. Ma quando si parla di vicine sanzioni all’Iran, di nuovo Hillary Clinton riafferma il vangelo della correttezza politica promettendo che non danneggeranno la popolazione. Sia col terrorismo internazionale che con l’Iran l’amministrazione è in allarme, e vuole tenere fermo, oltre la già difficile frontiera afghana, il ribollire di un grande mondo in rivolta.
Obama però pensa sia ancora possibile giocare quel sistema di simboli, astrazioni, parole che gli ha consentito di accedere alla presidenza degli Stati Uniti. Obama sa che, più che un politico, è un simbolo. Dunque, l’Amministrazione studia come affrontare il terrorismo qaidiano e il regime iraniano coprendo di eufemismi la sua scelta, celandola persino a se stessa se non per quello che gli basta a rassicurare gli americani spaventati. È difficile guardare intorno senza scorgere il terrore globale: ma se ieri l’interesse del Presidente verso questa minaccia sembrava quasi nulla, oggi dopo aver ripetuto ben cinque volte che il terrorista nigeriano era «un estremista», Obama capisce che non può stare con le mani in mano. La gente è spaventata, l’undici di settembre è sempre là. Aveva tentato la scappatoia del «pazzo isolato» anche dopo l’attentato di Fort Hood compiuto dall’ufficiale americano mussulmano Nidal Malik Hassan; poi c’è stato l’arresto di cinque pachistani-americani incardinati in una congiura tutta cresciuta nella Al Qaida di casa propria; e poi il tentativo di omicidio di massa di Umar Farouk Abdulmutallab sul volo 253.
Obama, specie dopo quest’ultimo evento e dopo aver riproposto lo schema del terrorista nigeriano come psicotico la cui mente alterata ne fa probabilmente «un caso isolato», ha dovuto arrendersi all’evidenza di una larga, lunga preparazione di cui era venuto a conoscenza addirittura il padre del terrorista, che l’aveva denunciato. Non solo: dalle indagini esce chiaro il nesso con la leadership del movimento trasferita da Guantanamo in Arabia Saudita e poi in Yemen; intanto, si è dispiegata chiara e intrigante la spietatezza dell’attacco astuto e preciso compiuto contro sette agenti della Cia in una base americana sul confine fra Afghanistan e Pakistan da un infiltrato giordano.
Il presidente americano alla fine ha detto parole dure: bisogna, ha detto, «distruggere, smantellare, sconfiggere gli estremisti che ci minacciano... ovunque pianifichino i loro attacchi». Ma chi sono costoro? Perché lo fanno? L’Amministrazione non lo dice, e dove non c’è analisi non c’è strategia. Obama ha ordinato che da ora in avanti gli aeroporti passino al setaccio chi proviene da 14 Paesi, tutti quanti islamici; ma si parla di nazionalità, non di religione. Può essere un’idea gentile, anche se poco piacerà ai cristiani di questi Paesi. E può risultare pericolosa l’esclusione, certo politica, di Egitto e Giordania, Paesi moderati dove però si annidano sia i Fratelli Musulmani che Al Qaida. Nessuno così potrà dire che il profiling aeroportuale sia un’affermazione di discriminazione religiosa che sottintende un attacco islamico agli Stati Uniti o a altri Paesi occidentali.


Ma quanto dureranno questa e altre forme di cortesia? Obama con la sua politica eufemistica, così come con il continuo aprire e chiudere i rapporti con un Iran che è ben peggio, ormai, di uno Stato canaglia, ha un’influenza fuorviante su chi guarda all’America con la fiducia che si è meritata nei decenni.
www.fiammanirenstein.com

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