Da Bekele ai ciprioti, il mondo dell’oltre Bolt

Ci voleva Kenenisa Bekele per ricordare a tutti che l’atletica del mondo non è solo Bolt. D’accordo, l’etiope dalla faccia triste non ha lo stesso appeal, non ci diverte con quattro moine e record da extraterrestre, ma solo con la sua corsa leggera, perfin monotona che, ieri, ha esaltato lo stadio di Berlino in quello straordinario sprint finale dei 5000 metri. È arrivata la seconda medaglia d’oro, dopo quella nei 10.000, e un posto nella nicchia degli immortali. Si dirà: c’era già. Bene, ora di più, perché nessuno mai nella storia dei mondiali ha centrato l’oro nelle due distanze nella stessa edizione.
L’atletica ha chiuso i mondiali dimostrando di essere davvero un mondo senza confini, nulla da spartire con il nuoto: qui c’erano 201 nazioni (181 nel nuoto) e 1984 atleti, 34 nazioni sono andate a medaglia, si sono affacciate quelle dell'altro mondo (Barbados ha festeggiato la prima volta con l’ostacolista Braithwaite). I record del mondo sono stati solo tre, ma i due di Bolt resteranno nel libro degli indimenticabili. Il record nell’atletica è qualcosa di prezioso e affidabile, c’è da sudare anni per batterli. In questo senso il giamaicano non fa testo. Lui sfreccia, anzi, dopo aver visto le ultime Ferrari ha deciso che potrebbe provare la gara. «Dite a Schumi di passare di qui con la sua Ferrari e facciamo una sfida. Io a piedi sono più veloce di lui in auto». Battuta, ma mica tanto. Comunque un modo per far ruotare intorno a sé il mondo. Venerdì Bolt andrà a Zurigo sulla magica pista dei record per monetizzare, e sabato sarà a Madrid: padrino del via al campionato del Real contro il Deportivo La Coruña.
Oggi Bolt, per l’atletica, è molto più di quanto sia Michael Phelps per il nuoto, non ha il fascino di Carl Lewis ma ha rivitalizzato un movimento. Dietro di lui avanza il nuovo e non molla il vecchio. Basta dare un’occhiata al medagliere: gli americani hanno raccattato podi, come nella tradizione, anche se oggi re e regine della velocità stanno prevalentemente in Giamaica. Gli africani “annoiano” nelle gare lunghe. Con 3 salti un australiano autentico, non un russo naturalizzato, è salito più di tutti nel salto con l’asta. Steve Hooker è campione olimpico e qui ha ribadito. Ma che dire di Dani Samuels regina del disco, prima donna d’oro dell’Australia? Stiamo facendo l’abitudine a un saltatore in alto di Cipro, Kyriakos Ioannoiu, argento dopo il bronzo di 2 anni fa. Cipro ha presentato perfino una donna (Artymata) nella finale dei 200 m. E poco importa sia arrivata 8ª.
Nella finale del lungo femminile si è presentata Shara Proctor, ragazza tuttofare (ha provato almeno 6 specialità) di Anguilla, isoletta caraibica nelle Piccole Antille, 102 km quadrati, circa 16mila abitanti. Anguillescamente, è piombata sul sesto posto assoluto (m. 6,71). In Italia ci siamo fermati a Fiona May.
Insiste, nel medagliere, la Nuova Zelanda, grazie alle poderose bracciate di Valerie Vili (peso). Il Bahrein ha fatto acquisti giusti e vince con i suoi keniani. Il Sud Africa ha dimostrato di avere una scuola di mezzofondo, avendo vinto gli 800 maschili e femminili. Mbulaeni Mulaudzi, eterno piazzato, ha strappato lo sprint della vita e raddoppiato il successo di Caster Semenya. Ed ora qualcuno dirà che il Sud Africa ha vinto due titoli maschili. Battuta scontata ed ingiusta nei confronti della ragazzina diciottenne.
In tutto questo brulicare di nuove frontiere, l’Europa rischia di restare indietro. I Paesi di grande tradizione si sono salvati con qualche medaglia. La Spagna si aggrappa addirittura ai quarantenni (Garcia, bronzo nella marcia; la Rodriguez prima ieri nei 1.500 ma poi squalificata). L’Italia è affogata nelle incapacità gestionali.

Valga per tutti il caso Howe, talento che rischia di andare buttato, in attesa di operazione. Ieri il presidente Arese, accerchiato dalle critiche, ha provato a far voce grossa. «Andrew deve decidere: o accetta le nostre direttive tecniche, oppure ognuno per la propria strada». Meglio tardi che mai.

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