Bertinotti: io vado alla Camera e Romano starà in sella 5 anni

Il leader del Prc detta le condizioni: la presidenza di Montecitorio, Pisapia alla Giustizia e niente inciuci

Roberto Scafuri

da Roma

Vuoi vedere che il Prodinotti resiste alle tempeste. Quelle prossime. Non era tra gli slogan della campagna elettorale, potrebbe diventare il «vuoi vedere che» più concreto di una legislatura nata in salita. Nella quale il successo arride soprattutto all’architrave dell’accordo di programma, racchiuso in quella «convergenza reale» tra Prodi e Bertinotti, come se gli elettori unionisti avessero compreso e premiato esattamente lo sforzo di stare assieme. E hanno fatto splitting, come viene detto con parola alla moda il voto «disgiunto»: Ulivo prodiano alla Camera, Rifondazione bertinottiana al Senato. Spiegazione eloquente anche del dato che oggi incorona Fausto Bertinotti «diarca», quello «straordinario successo» di Prc che nelle aree metropolitane porta il 7.4 per cento di media nazionale a toccare vette impensabili (talora oltre il 10%), proiettandolo al sorpasso della Margherita come secondo partito dell’Unione.
Insomma, volenti o nolenti si deve partire da qui. Dalla scommessa vinta da Rifondazione, che ora legittimamente attende «peso nel governo e chiara visibilità». Una posizione che si prefigga di «tenere il quadro limpido», ovvero di mettere al riparo la coalizione (e la legislatura) da ciò che il Prodinotti al momento più teme: «Cedimenti a pasticci, ponti levatoi gettati verso la minoranza e qualsiasi tipo di operazione che corroda la correttezza istituzionale». La grosse koalition alla tedesca, dice Bertinotti (Prodi ribadirà), «sarebbe un tradimento del Paese, una minaccia per l’integrità della coalizione». Rifondazione invece «confida nell’autosufficienza dell’Unione di cui Prodi è guida», perché «qualunque possibilità di accordi diversi rispetto al risultato elettorale sarebbe un oscuramento del risultato elettorale, mentre la responsabilità dell’Unione è quella di governare il Paese e guadagnare nuovi consensi attraverso la sua politica riformatrice». Il percorso si va definendo, l’incarico «per galateo istituzionale» dovrebbe essere conferito dal nuovo presidente della Repubblica a tempo debito: «Non bisogna avere fretta» perché oggi più che mai occorre rispettare la «correttezza istituzionale, veniamo da un periodo in cui è stata fatta carne di porco delle istituzioni e anche per questo l’Unione deve avere un sovrappiù di scrupolo».
Se questa è l’esatta cornice nella quale il centrosinistra dovrà muoversi, emergono chiare le condizioni per le quali la presidenza della Camera a Bertinotti è il passaporto per un futuro governo Prodi, «che durerà 5 anni». Scenario nel quale, certo, ci sarà il peso di ministri rifondatori (a cominciare da Giuliano Pisapia, in pole position per la Giustizia), ma dove soltanto la visibilità di un riconoscimento istituzionale a Prc può segnare la fase politica e garantire la sua continuità. Improprie e pericolose sono perciò quelle che Bertinotti definisce le «sgrammaticature istituzionali» di alcuni esponenti del centrosinistra (il ds Gavino Angius per primo), che tendono a lanciare segnali verso la Casa delle libertà. La premessa è che «l’Unione oggi debba parlare come una coalizione di governo unitaria ed è sbagliata ogni anticipazione di qualunque iniziativa politica non concordata». Il succo è che Prc sarà fortemente «indisponibile» a concedere la presidenza di una Camera all’opposizione: «Sarebbe un grosso errore politico». Anche in questo caso, «un confronto aperto nelle sedi istituzionalmente coinvolte come la Camera e il Senato» non dovrà avere il sapore dell’«inciucio». Al contrario: «Chi ha la maggioranza ha la responsabilità di assumersi la guida di queste istituzioni».
Una nitidezza che porta, rovesciando la medaglia, a non dare spazio a «fenomeni disdicevoli» quali una «campagna acquisti» in settori centristi del Parlamento per rafforzare la maggioranza al Senato. «Però un conto sono gli acquisti - spiega -, un conto invece è la frana; i primi vanno evitati, la seconda va solamente regolata perché un’eventuale fuga dal fronte avverso non dipende dalla tua volontà». Il problema vero e temibile allora è racchiuso altrove. «Non nei transfughi, bensì nella pressione che i poteri forti del Paese eserciteranno sull’Unione per rendere il programma riformatore della coalizione compatibile con i loro interessi». Questa pressione, dice Bertinotti, va combattuta accentuando e facendo emergere il processo riformatore all’interno della coalizione. E si tratta di un «problema reale», legato anche al legittimo proposito di allargare il consenso del Paese, «conquistare altri sostegni alla tua politica in altre realtà sociali».

Anche perché «con il 51 per cento si governa un Parlamento, non una riforma; una riforma richiede più egemonia». Egemonia che si conquista con l’impegno, con la serietà, con il mantenimento delle promesse. Vuoi vedere che qualcuno se ne potrebbe dimenticare già tra qualche mese. Quelli che «inciuciano».

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