«Bianchini non era nei luoghi degli stupri»

L’accusa lo vuole condannare a 15 anni per tre violenze sessuali, ma lui si è sempre proclamato innocente. E ieri gli avvocati hanno sollecitato la sua assoluzione o in subordine l’effettuazione di una perizia psichiatrica: «Luca Bianchini non era nei luoghi in cui furono commessi gli abusi», dice Giorgio Olmi, uno dei legali del ragioniere di 34 anni ritenuto responsabile di tre stupri tra l’aprile e il luglio del 2009. Era altrove, lontano dall’Ardeatina a dalla Bufalotta dove le vittime sono state sorprese alle spalle nei garage condominiali.
La novità arriva quando il processo è ormai alle battute finali. A sostenerla i tabulati dei cellulari di Bianchini di cui il penalista è entrato in possesso nei giorni scorsi nell’ambito delle analisi difensive. Ebbene, dall’analisi di quei documenti emergerebbe che l’imputato non era nelle vicinanze dei posti in cui sono avvenuti gli stupri. «Bianchini - sostiene Olmi - aveva due cellulari e dai tabulati abbiamo accertato che ha effettuato alcune chiamate dai luoghi non compatibili o vicini a dove furono commessi gli stupri. Telefonò ad un sensitivo da una cellula telefonica distante 6-7 chilometri dal posto in cui si stava compiendo uno degli stupri di cui è accusato. Altre telefonate compiute dal mio assistito nel giorno delle altre violenze non sono compatibili con le scena dei crimini». Secondo l’altro avvocato, Bruno Andreozzi, è pertanto «necessario fare una perizia per stabilire il posto preciso nel quale è stato utilizzato il cellulare, le distanze, i tempi di percorrenza rispetto ai luoghi dove furono commessi gli stupri».
Il pm Antonella Nespola, invece, non ha dubbi sul fatto che fosse proprio Bianchini l’uomo che la scorsa estate ha diffuso nella capitale la psicosi dello stupratore seriale. E l’esame del dna, del resto, è dalla sua parte. Un aspetto, quello dell’esame genetico positivo e ripetuto due volte su richiesta dello stesso Bianchini, sul quale si è soffermato a lungo l’avvocato Olmi. «Non mettiamo in discussione il valore scientifico di tali accertamenti - dice - ma segnaliamo l’esistenza di punti oscuri e il fatto che l’indagine non è stata condotta con il rigore scientifico necessario. La condotta processuale dell’imputato è chiara. Chi ha qualcosa da nascondere non chiede come ha fatto lui che sia rifatta tale prova. Un colpevole andrebbe contro logica se ne chiedesse la ripetizione, sapendo di essere responsabile di un reato. Non c’è certezza che ci fosse il suo dna sulle scene dei crimini, perciò è indispensabile la ripetizione di tali esami». «Questo procedimento - aggiunge l’avvocato Andreozzi - è nato male, preceduto e accompagnato da una campagna mediatica virulenta. Inoltre, nelle numerose perquisizioni non è mai stato trovato un coltello a serramanico o a scatto e un passamontagna come quello descritto dalle donne aggredite. Non sono neanche mai stati trovati slip che sarebbero stati sottratti alle stesse donne.

Noi non mettiamo in dubbio il dramma subito dalle donne, ma occorre esaminare bene le loro dichiarazioni; soprattutto perché da quelle dichiarazioni gli investigatori ritengono essere giunti a Bianchinì. Diversa anche la descrizione fornita dell’aggressore e la “realtà fisica” del mio assistito».

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