eppure una settimana dopo l'apertura al pubblico della Biennale di architettura, il 27 luglio 1980, la stazione di Bologna fu sventrata dalla bomba che uccise 85 persone e ne ferì 200. Soltanto un mese prima, il 27 giugno, a Ustica era caduto l'aereo che trasportava 81 persone. La linea di sangue del 1980 continuerà a novembre in Irpinia: il terremoto provocherà duemila morti. Sullo sfondo di quello che apparirebbe un annus horribilis, l'Italia organizza i campionati europei di calcio, prova generale per i mondiali del 1990, perché l'attaccamento alla vita è più forte, la gente ha voglia di uscire per strada, nelle piazze, non solo per manifestare contro, ma anche per affermare il proprio diritto a sconfiggere la paura. Su tre eventi drammatici si costruirà il decennio migliore del nostro Novecento, il vero ingresso nella contemporaneità, e saranno quelle stesse città paralizzate dal terrore a giocare un ruolo determinante.
Anche qui sta il significato di aprire la Biennale di Venezia all'architettura e al design. Non che prima non ci fossero, ma inserite nell'ambito delle arti visive. Si registra, proprio nel difficile 1980, la necessità di cambiare passo, di mettere in campo nuove idee e inedite utopie sul progettare, costruire e abitare, oltre a rilanciare un modello di industria italiana che piace molto all'estero, specchio del nostro gusto e del nostro stile. È la Biennale del postmoderno o «della fine del proibizionismo» che nell'idea del direttore Paolo Portoghesi è la volontà di riappropriarsi del passato, di rimettere a posto i conti con la storia che gli anni di piombo avevano soffocato nell'ideologismo più deleterio, «il processo di riappropriazione della memoria e la vittoria sulle inibizioni ereditate dai padri ribelli». L'immagine portante è quella della strada, la «Strada novissima, elemento costitutivo della città, nonché termine fondamentale della ricerca postmoderna. Venne individuato uno spazio inedito, l'Arsenale militare, non ancora utilizzato, che diventerà il cuore della Biennale dell'epoca contemporanea; si entrava appunto in un percorso spettacolare dove venti ipotetiche facciate furono affidate ad architetti e progettisti in auge. Costantino Dardi, Rem Koolhaas, Michael Graves, Frank O. Gehry, Ricardo Bofill, Venturi-Scott Brown, Massimo Scolari, Franco Purini, Arata Isozaki tra gli altri. Aldo Rossi, invece, scelse il coup de théâtre e portò il suo Teatro del mondo a navigare su una zattera che si fermava accanto a Punta della Dogana, architettura come mise-en-scène dell'effimero che prelude alle commistioni con le installazioni d'arte.
Secondo questa visione, che ebbe un gran successo nonostante allora i numeri di visitatori alla mostra fosse bassissimo (40mila) se paragonato alle edizioni recenti, la Biennale doveva essere considerata l'occasione per reimmaginare la città sotto migliori auspici. Va detto che gli intellettuali della sinistra ufficiale fecero molta resistenza, non apprezzandone l'ironia che faceva a pugni con la loro seriosità: Bruno Zevi fu il critico più aspro, parlando di cancro insopportabile contro il valore della simmetria, frutto delle «distorsioni di una decina di persone psicotiche o depravate».
A lungo il postmoderno si coniuga con il riflusso, il craxismo, la stagione dell'effimero e delle discoteche. E invece fu il riscatto dell'ornamento, del citazionismo, dell'ironia, di quegli oggetti banali che Alessandro Mendini, irriverente e geniale, aveva raccolto in un'altra sezione della mostra, il gioco per riappropriarsi dello spazio e delle arti al fine di «ri-disegnare e ri-significare il mondo».
Ogni urgenza della storia si porta dietro, inevitabilmente, la necessità del cambiamento. Sarebbe stato molto interessante confutare l'ipotesi - tanto italiana - del 1980 con quella del 2020 - poco italiana - se la Biennale si fosse inaugurata nei tempi previsti. E invece slitterà di un anno e sicuramente non sarà la stessa che era stata pensata da Hashim Sarkis, architetto libanese, docente al Mit di Boston, studioso d'arte e fondatore dello studio Hss. Forse non cambierà la domanda del titolo «How will we live together?», ma sicuramente cambieranno le risposte nel tempo che ci separa dalla decisione dello spostamento alla primavera 2021, con architetti e teorici che saranno chiamati a ripensare l'idea di città e di spazio senza che nessuno l'avesse previsto in maniera così radicale, ammesso che il trauma lo renda davvero necessario.
Quel «together», insieme, acquisterà comunque un significato diverso e Sarkis aveva già intuito che la connessione primaria tra esseri umani sarà in forma digitale e che per contro le famiglie (comunità ristrette e persino artefatte, gli amici contavano di più delle famiglie, ora si vuole allontanarli) cercheranno spazi più dignitosi nel tentativo di recuperare il senso di comunità eque e inclusive. Secondo tale slancio utopistico si sarebbero superati i confini politici per «immaginare nuove geografie associative». Alla presentazione ufficiale, era il luglio 2019, Sarkis sosteneva che il 2020 sarebbe stato «la pietra miliare sulla via di un futuro migliore... guardiamo all'immaginario collettivo per andare incontro a questa occasione epocale con creatività e coraggio».
Lo immaginiamo nel chiuso della sua stanza a riprogettare il concept di una mostra che inevitabilmente sarà un'altra: qualcosa potrà essere salvato, altro sarà da buttare e rifare. La sfida appare ancor più interessante, proprio come fu nel lontano 1980 - lo stesso anno in cui peraltro l'arte inaugurò «Aperto», la sezione dedicata ai giovani, prima la Biennale rappresentava la consacrazione, non la proposta - quando l'Italia ferita si rimise in moto. In pochi ci avrebbero scommesso, eppure accadde.
Oggi il tempo corre più veloce, nessun
Paese resisterebbe a un decennio di terrore che non può essere paragonato ad alcuni mesi di lockdown, seppur globale. All'architettura il compito di progettare il futuro, sperando che qualcuno sia in grado di realizzarlo.
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