La Biennale di Venezia è come un icosaedro, il mitico poliedro con venti facce. L'icosaedro regolare è uno dei cinque solidi cosiddetti platonici e nell'antichità gli si attribuivano valenze esoteriche. Platone associò l'icosaedro, guarda caso, all'acqua che è l'elemento su cui fluttua, come un sogno, Venezia e pure la sua Biennale, multiforme e poliedrica ed esoterica ogni volta che si mostra; di cui si può dire bene o male a secondo del lato che si guarda e il risultato comunque non cambia. Succede anche in questa edizione, dedicata come ogni due anni all'Architettura, il cui senso indicato dalla curatrice la scozzese-ghanese Lesley Lokko (l'Africa e la decolonizzazione) viene sopraffatto dalla molteplicità di suggestioni che echeggiano dagli oltre 60 padiglioni nazionali e dagli eventi collaterali, mostre, convegni, workshop che dureranno sei mesi.
Qualche appunto si può però tentare. Il Padiglione Italia, curato da «Fosbury», un giovanissimo collettivo, non funziona: nel contesto della Biennale in cui la mostra di architettura assomiglia sempre di più a quella di arte contemporanea (più allestimenti che progetti), il nostro padiglione dal punto di vista performativo appare misero, con un grande ledwall nella prima sala che dovrebbe stupire il visitatore, immagini e grandi scritte in movimento, e che invece si ricorda soltanto perché, in ossequio al politicamente corretto, si usa «architett*», con l'asterisco come se il plurale «architetti» rimandasse alla mente stuoli di rudi maschi e non fosse semplicemente l'uso, del tutto tradizionale nella nostra lingua, del maschile al plurale come genere grammaticale non marcato. Dal punto di vista dei contenuti è altrettanto misero poiché i progettini scelti per esemplificare roboanti questioni («convivenza con il disastro, inclusione sociale, tutela del paesaggio, rigenerazione delle periferie, superamento del divario digitale, transizione alimentare, riconciliazione con l'ambiente, recupero del patrimonio incompiuto, coesistenza culturale») non solo sono esposti in modo minimal pauperistico, ma risultano poveri dal punto di vista concettuale e progettuale, limitandosi a un poco di smalto sul nulla; il Paese di Leon Battista Alberti, di Brunelleschi, Muzio, Portoghesi, Piano, Boeri, Cucinella che si vanta di aver trasformato dei tubi delle fogne in sostegni per free climbing, ovviamente avendo a cuore la «democratizzazione delle attività ricreative» (sic!), o che immagina la rigenerazione urbana attraverso performance, installazioni sonore, giochetti del genere, in cui prevale al dato architettonico il velleitarismo dei curatori che per sovrapprezzo hanno scelto di farsi affiancare da uno stuolo di mediatori creativi (artisti, scienziati, scrittori...) nella più scontata idea trans-disciplinare e nell'ottica rivoluzionaria del superamento della figura dell'architetto autore, padre e padrone. D'altronde anche la Lokko si è detta vicina ai «practitioner», piuttosto che agli architetti; nel complesso tra under 30 e under 40, nessuno o quasi nessuno dei non-architetti invitati alla Biennale ha mai realizzato per davvero un edificio.
Alla fine, il Padiglione Italia, per quanto riguarda le aspirazioni, è il Padiglione Turchia in cui la questione del riutilizzo degli edifici dismessi, «di come trasformare le strutture esistenti sulla base di sogni e discussioni collettive», è affrontata in modo semplice, esaustivo, con un allestimento in cui il fine didattico prevale sulle modalità espositive. Il vero Padiglione Italia, per quanto riguarda l'aspetto progettuale, è invece il Padiglione Venezia, curato dal Collettivo Venezia, nel quale oltre a una gigantografia della veduta della città a volo d'uccello di Jacopo De Barbari del '500, ampliata con l'inedita aggiunta della cartina della zona metropolitana, sono esposti e ben spiegati i progetti pubblici e privati, architettonici e urbanistici, avviati dal 2015 che cambieranno laguna e terra ferma nei prossimi anni.
Il padiglione più divertente è quello della Lettonia che è un vero e proprio supermercato in cui i prodotti esposti sugli scaffali sono i padiglioni nazionali in forma di merce. Il padiglione più raffinato è quello del Giappone, una vera esperienza spaziale, che invita i visitatori a pensare all'architettura come a un luogo da amare. Il padiglione più chiuso è quello russo, chiuso per davvero (e dispiace che la cultura non sia sempre un territorio di pace), mentre quello di Israele è chiuso per finta, sigillato è stato trasformato in un data center: non vi si può entrare mentre negli spazi esterni retrostanti sono esposti modellini in cemento dello stesso padiglione. Il padiglione del Belgio presenta una grande struttura costruita in un materiale organico, sostenibile e rinnovabile, prodotto dai funghi. Il padiglione Uzbekistan è un labirinto di muri di mattoni. Quello del Cile, una sorta di campionario di semi per ripopolare in futuro il pianeta. Quello della Croazia un nido-cesto in legno. Quello delle Filippine un ponte in bambù. Quello del Lussemburgo è un laboratorio lunare per l'estrazione mineraria nello spazio. Quello dell'Irlanda, una montagnola di terra, e sempre la terra, umida e odorosa, invade il padiglione Brasile. In quello della Finlandia vengono riesaminate, in maniera critica, le infrastrutture igienico-sanitarie nel contesto della carenza globale di acqua dolce ormai diventata realtà in Europa, l'intento è di ispirare gli architetti a cercare soluzioni alternative: la mostra ne presenta una a basso impatto, una moderna toilette a secco cioè un water senz'acqua che è a tutt'oggi una soluzione tipica di servizio igienico in località remote di quel Paese.
Per chi volesse vedere qualcosa che abbia a che fare con l'architettura conviene andare a Palazzo Franchetti per la mostra Onomatopoeia Architecture del grande Kengo Kuma:
venti maquette, due installazione site specific, e una serie di fotografie, dimostrano al meglio cosa significa pensare e progettare poeticamente, senza cemento e preferendo materiali come il legno, la carta, il metallo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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