Big baby Davis, il colosso obeso schiaccia rivali

Rivelazione dei Boston Celtics urla sempre: «Ho il verme solitario, ho fame di vittorie»

Ci vuole qualcosa di particolare per emergere in una squadra come i Boston Celtics. Bisogna avere un talento, un fisico, una personalità speciali. Glen Davis ha tutto questo, o quasi. Nel 2005, quando era ancora all’università di Louisiana State, pesava 160 chili (per 2.03 di statura) e portava una maglia da gioco di taglia XXXL: normale per lui, da sempre il più grosso ed il più grasso di tutti, un po’ meno per gli altri. Anche quelli che sul campo, aspettandosi un obeso immobile, scoprivano invece un giocatore che, usando il piedone come compasso, incideva sul parquet forme geometriche e trattava il pallone come fosse di cristallo. Un gigante delicato, Davis, capace di urlare, dopo le vittorie, «non ci fermiamo qui, Big Baby ha il verme solitario, Big Baby ha ancora fame».
Per Big Baby, «bambinone» perché quando giocava a football era il più grosso ma anche il più giovane e piagnone, il silenzio è un pianeta disabitato: non sta zitto un secondo e bercia su tutto e su tutti, o perlomeno lo faceva fino al momento di approdare in Nba. Chi vi arriva, come sta comprendendo anche il nostro Marco Belinelli, deve dimenticarsi tutto e ricominciare da zero: se al college Davis poteva prendere una sedia, sistemarsi a centro spogliatoio e intrattenere i presenti fino a notte fonda, nei pro ha iniziato con un riserbo maggiore. Quello richiesto ad una matricola, vittima oltretutto in precampionato del nonnismo rituale: a Roma, dove i Celtics hanno iniziato la preparazione, è stato infatti costretto a mangiare senza sosta polpo al vapore. A prima vista non proprio una tortura, ma Davis sul cibo è particolarmente sensibile: tra maggio e ottobre 2006 era dimagrito di 25 chili, ma le lunghe settimane senza gli adorati biscotti al cioccolato e le patatine a mezzanotte erano state per lui un incubo, così come la perplessità di fronte ad alimenti nuovi come tofu e soia.
La garrula allegria di Davis nasconde peraltro un’infanzia difficile: madre tossicodipendente, padre ricomparso dal nulla solo sei anni fa, mesi e mesi in case protette, un paio di furti di cibo per mangiare, poi l’incontro con un coach, Ari Fisher, ed un ex giocatore, Collis Temple, che lo tennero d’occhio e lo iscrissero al liceo University Prep, situato all’interno del campus di Louisiana State. La scorsa settimana Davis, che fino a quel momento aveva poco più di 4 punti di media, ne ha segnati 20 contro Detroit, di cui 16 nell’ultimo quarto.

Una legittimazione della sua capacità di giocare nella Nba, della quale egli stesso non era sicuro dopo essere stato scelto solo al numero 35 del draft 2007 ed avere visto, nel prospetto stilato da coach Doc Rivers proprio prima della partenza per Roma, che il suo nome non compariva né nel primo né nel secondo quintetto di allenamento. «Terzo quintetto? - aveva detto - Meglio darci dentro, allora». Lo ha fatto, ecco i risultati.

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