Quasi quasi mi compro un bitcoin

Jamie Dimon è uno dei personaggi più noti della finanza americana: guida il colosso Jp Morgan, nome illustre tra le banche d'affari di Wall Street

Quasi quasi mi compro un bitcoin

Jamie Dimon è uno dei personaggi più noti della finanza americana: guida il colosso Jp Morgan, nome illustre tra le banche d'affari di Wall Street. Tre anni fa non aveva dubbi: il bitcoin non era altro che una «truffa» da cui stare alla larga. Nell'autunno scorso sono stati proprio gli analisti della sua Jp Morgan a dargli torto: in un report molto pubblicizzato hanno scritto che la moneta digitale offre grandi prospettive di investimento e che tutti o quasi i maggiori investitori internazionali lo hanno ormai capito. Sulla stessa lunghezza d'onda si è messo Paypal, il più grande servizio di pagamento digitale: da quest'anno offrirà ai suoi clienti, prima negli Usa e poi nel resto del mondo, la possibilità di comprare bitcoin e di pagare così gli acquisti effettuati sulla Rete.

Ad attirare tanta attenzione e a far uscire la valuta digitale dal mondo dei pirati del web per introdurla nel mondo della finanza più istituzionale, è stata semplicemente la forza dei numeri. Nel 2020 il bitcoin ha guadagnato più di ogni altro investimento disponibile sui mercati internazionali: 100 euro impegnati a inizio d'anno in monete digitali sono diventati 358, quasi quattro volte tanto. Ottimo risultato, ma ancora nulla in confronto ai guadagni portati a casa dagli impallinati di computer che nel lontano ottobre del 2009 decisero di puntare qualche spicciolo su quello che all'apparenza era solo un'eccentricità da nerd informatici. Allora un bitcoin valeva un dollaro, intorno al 31 dicembre ha superato quota 30mila (e le quotazioni sono poi salite ancora nei giorni successivi, con un record oltre i 40mila).

Pare che, almeno in America, i miliardari da bitcoin non manchino. Tra di loro ci sono di sicuro Tyler e Cameron Winklevoss, i due gemelli compagni di università ad Harvard di Mark Zuckerberg, che si rivolsero a un tribunale rivendicando di essere stati loro ad inventare Facebook. Ne seguì un accanito procedimento giudiziario raccontato nel film The social network. Alla fine i due dovettero accontentarsi di un risarcimento di 65 milioni di dollari. Sembrava una sconfitta ma non si è rivelata tale: molti dei soldi incassati furono investiti in bitcoin quando la corsa dei prezzi era appena iniziata. E alla ricchezza i gemelli ci sono comunque arrivati.

VALORI MISTERIOSI

Dietro il successo dei Winklewoss un'idea che a molti appare poco più che un giochetto. Perché delle monete tradizionali il bitcoin non ha nulla. Non è un mezzo di scambio come l'oro, che ha un suo valore intrinseco. Non ha dietro di sé la potenza di uno Stato che garantisce il valore della cosiddetta «moneta fiduciaria» (le banconote). I bitcoin non sono altro che righe di programmi informatici depositati su tanti computer sparsi per il mondo. Incomprensibile? Solo all'apparenza.

Tutto parte da un nome: Satoshi Nakamoto. È lo pseudonimo di un genio (o di un gruppo di geni) dell'informatica: nel gennaio del 2009 l'anonimo informatico (nonostante ricerche e ipotesi non si sa di chi si tratti) pubblica in Rete i codici del bitcoin.

Il sistema si basa sui miner, minatori, che effettuano, appunto, il mining, ovvero l'estrazione dei bitcoin: sono persone, o meglio aziende, che attraverso la potenza di calcolo dei propri computer riescono a risolvere dei veri e propri problemi matematici e informatici proposti da Nakamoto. Il loro premio, la loro retribuzione, sono i bitcoin. Diventano in qualche modo «proprietari» di blocchi di software (la tecnologia è detta blockchain, blocchi a catena), legati indissolubilmente gli uni agli altri e non falsificabili: se ne possono aggiungere di nuovi ma quelli già scritti sono immodificabili. I blocchi risiedono su network di computer anche ai quattro angoli del pianeta (sono gli stessi computer dei miner, che si impegnano anche a gestire l'architettura complessiva).

Il sistema è costruito in modo da evitare la cosiddetta doppia spesa. Se il network di computer collegati (che fa da registro complessivo) trascrive una transazione, per esempio se io vendo dei bitcoin a un altro, questi vengono assegnati a lui e io ne perdo la disponibilità (in pratica non si fanno copie, come accade di solito nel mondo digitale).

COME L'ORO

Nakamoto ha fatto in modo di contingentare la possibile produzione di bitcoin: la retribuzione dei miner viene periodicamente dimezzata e in tutto se ne potranno produrre solo 21 milioni di unità (l'ultimo, secondo i calcoli degli esperti, vedrà la luce nel 2140). Questa caratteristica rende i bitcoin più simili all'oro che alle monete. Il costo per «estrarli» è alto (proprio come quello necessario per gestire una miniera nel caso del metallo giallo): tra computer necessari per risolvere i problemi ed elettricità necessaria per farli lavorare si calcola (lo ha fatto di recente il Sole 24 Ore) che un bitcoin costi attualmente tra i 10 e i 14mila euro. Non solo: la spesa aumenta sempre di più, proprio perché diminuisce il premio per l'attività di estrazione. Anche per questo le fabbriche di bitcoin sono di solito in Paesi dove l'elettricità costa poco (ma ce n'è qualcuna anche in Italia). Il contingentamento dovrebbe contribuire, comunque a un mantenimento del valore del bitcoin sul lungo periodo e fa parte delle caratteristiche che, secondo gli estimatori, rendono interessanti i bitcoin.

Quanto alle possibilità di investimento a piacere a molte istituzioni finanziarie è soprattutto il fatto che l'andamento delle monete virtuali (oltre al bitcoin ne sono nate nel frattempo altre) è completamente sganciato dagli altri tipi di asset a disposizione dell'investitore, garantendo così il massimo della diversificazione, anche se il rischio «bolla» è sempre in agguato.

ALTISSIMO RISCHIO

I protagonisti che operano nel settore hanno vari ruoli. Come spiega un libro pubblicato di recente (Moneta. Dai buoi di Omero ai Bitcoin/il Mulino) e scritto da due funzionari di Banca d'Italia, Riccardo De Bonis e Maria Iride Vangelisti, ci sono prima di tutto i wallet service provider (letteralmente: gestori di servizi di portafoglio) che si occupano della custodia dei conti degli utenti e della registrazione delle transazioni, e gli exchanger, che acquistano e vendono cambiando i bitcoin con altre valute.

L'altra faccia della medaglia è che il settore è praticamente un Far West senza regole né garanzie. In Italia, per esempio, gli operatori sono soggetti alla sola normativa anti-riciclaggio, senza dover sottostare ad altri obblighi (pare sia in arrivo una sorta di albo). La situazione è del tutto analoga negli altri Paesi e i campanelli di allarme sull'intera struttura del sistema si sono ripetuti anche recentemente. Proprio nel momento in cui la finanza tradizionale sembra aver scoperto le monete virtuali. «Questo tipo di tecnologia ha già giocato un ruolo importante in molti dei più significativi casi di minaccia criminale alla sicurezza nazionale del nostro Paese», avvertiva un rapporto del ministero della Giustizia americano nell'ottobre scorso. Il dato fondamentale da considerare è che per proporsi come intermediari (sia pure truffaldini) basta poco più di un sito. Per gli imbroglioni è una manna. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha censito almeno 47 episodi di truffe a livello internazionale, di solito opera di sofisticati hacker. Poi ci sono gli incidenti di percorso: basta perdere la chiave d'accesso al proprio wallet (portafoglio) elettronico per perdere irrimediabilmente i bitcoin in esso contenuti.

Infine c'è l'estrema volatilità dimostrata fino ad ora dei prezzi.

Frutto di un «gioco» per informatici, il valore del bitcoin è stato soggetto negli anni ad alti e bassi all'apparenza inspiegabili. Anche per questo in un documento di presentazione della moneta virtuale Banca d'Italia lanciava un avvertimento preciso ai risparmiatori: non investite in bitcoin più di quello che vi potete permettere di perdere.

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