Bolscevichi di governo

Il governo Prodi sbanda di fronte a continue divaricazioni di principio nella sua maggioranza: dal rapporto con la Chiesa alla politica estera, dalla concezione dello stato sociale alle scelte per le infrastrutture. In una coalizione, interessi e punti di vista possono essere diversi, non opposti. Intanto la trovatina delle microliberalizzazioni è durata l'espace d'un matin: anche illustri sostenitori preelettorali notano come una verniciatina di liberalizzazioni nasconda una pericolosa concentrazione di poteri economico-finanziari guidati dal governo. Il caos prodiano è frutto di tre arroganze: avere mascherato le divisioni del centrosinistra sotto un programma monstre, sperando in successive diverse maggioranze in Parlamento; avere realizzato un compromesso con settori dell'establishment per poi trattarli a pesci in faccia; avere realizzato una sfacciata occupazione del potere senza avere basi politiche, sociali, elettorali, parlamentari adeguate per governare realmente. La linea delle «tre arroganze» è miseramente fallita. Ma il peggio può ancora vincere. Anche se le condizioni per impedirlo ci sono. Si è giunti a un nuovo snodo: o il sistema bipolare si consolida (magari dopo un «passaggio» istituzionale) o si indebolirà la nostra democrazia, aumentando la subalternità italiana in Europa.
Di fronte ai grandi dilemmi, è indispensabile una visione adeguata del processo storico. A partire da quello che è stato il fenomeno centrale in tutto il Continente: la bolscevizzazione della politica. Il modello per le nuove formazioni politiche di massa erano stati i partiti socialisti. Dopo la prima guerra mondiale, però, parte dei socialisti si militarizzarono dando vita alle organizzazioni comuniste. Di qui la reazione simmetrica del fascismo. E più in generale il definirsi di un tipo di militanza politica totalitaria, in cui il partito era posto al di sopra di tutto. Questa tendenza costringeva gli avversari ad attrezzarsi specularmente. Il fallimento del comunismo (coinciso con la crisi di un certo tipo di centralità dello Stato nelle società occidentali) ha provocato un'ampia riforma della politica. Al cui centro è una concezione della politica come attività con chiari limiti, non pervasiva della società. Ai partiti vengono assegnate funzioni di servizio senza pretese di sovrapporsi alla società. In corrispondenza di una ritirata generale dello Stato. Certo, persistono i partiti che testimoniano grandi idee (come le formazioni liberali tedesca o inglese) ma si supera il mix di ideologia, nomenklatura e potere pervasivo che dopo l'esperienza comunista aveva conformato tutta la politica, a partire da quella italiana. Oggi si tratta di liberarsi anche dei tanti detriti che la «politica militante» ha lasciato. E forse, per questo fine, i Ds, soprattutto se la smettessero di fare furbate di puro potere, potrebbero non essere l'ostacolo principale. L'apparato dei Ds è simile a quelli al potere in tanti Stati mitteleuropei, che hanno saputo in più d'un caso trasformarsi in ceto di governo moderno. Più pericolosa è la linea prodiana, in qualche misura ricalcata sull'esperienza putiniana: l'impiego di apparati economico-finanziari e di settori dello Stato (in Italia, circoli della magistratura) per condizionare la politica.

Ma tendenze «bolsceviche» ad anteporre gli interessi di nomenklatura (l'avanguardia leninista) a quelli di una politica non pervasiva, si trovano in ogni angolino dello schieramento italiano. In questa ottica, appare in netta controtendenza la generosità di Gianfranco Fini ad aprirsi all'idea del partito unitario del centrodestra.

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