Bossi fa finta di niente Ma l’autogol di Aldo fa saltare i suoi piani

Nel giro di un attimo, come è tipico della ruvidità leghista, l’amico è diventato un mezzo sconosciuto, sacrificabile senza dubbi sull’altare della Causa prima, il cammino del federalismo. Chi si frappone su quel sentiero, sia pure il più fidato uomo-cerniera tra Pdl e Lega, diventa un ostacolo da superare, a costo di non guardare in faccia nessuno. Anche perché la grana Brancher, prima con la delega al federalismo vissuta come un affronto da Bossi, poi col patatrac del legittimo impedimento, che agli occhi della base è parso un po’ come un autogol, proprio non ci voleva.
Adesso l’ordine di scuderia è buttare la palla nell’altra metà campo, lavarsene le mani, anche se è arduo pensare che l’operazione Brancher sia passata sopra la testa della Lega. Anzi, qualcuno suggerisce uno scenario opposto, che vede proprio nella Lega la regia occulta del passaggio dell’ex dirigente Fininvest da sottosegretario a ministro. Il punto è l’Agricoltura, dicastero che Bossi rivuole a tutti i costi per sé. Numericamente, la nomina di Brancher serviva a creare uno squilibrio di forze (con la Lega che ha un ministro in meno rispetto all’inizio e il Pdl che così ne ha due in più) utilissimo per chiedere la cessione dell’Agricoltura e la «promozione» di Galan al posto vacante dello Sviluppo economico. Il Carroccio ha già due nomi per quel ministero considerato vitale e che, giurano fonti leghiste, tornerà al Carroccio entro luglio: il trevigiano Giampaolo Dozzo o il piemontese Gianluca Buonanno.
Ora però è il momento del catenaccio. Ecco perché le disavventure sul neoministro Brancher, in prima pagina su tutti i giornali, sulla Padania erano relegate ad una spalla di pagina 7. Ed ecco perché i pochi che parlano, nella Lega, fanno capire che la richiesta di far slittare le udienze per via dei nuovi impegni è stata una pessima idea, una «storia pasticciata», un «grosso errore», e che insomma ora tocca solo a lui, o al massimo al premier, decidere se dimettersi o no. «Non capiamo cosa c’entri la Lega con questo problema di Brancher e del legittimo impedimento - spiega al telefono Paolo Grimoldi, deputato 35enne e coordinatore federale dei Giovani padani -. Siete solo voi giornalisti che volete alimentare certe polemiche, ma non è un problema che riguarda noi. Il resto poi, la delega del ministro, è già superato, per cui non ha molto senso stare qui a parlarne». Tutto in ordine e calma piatta? Sarà, ma le impressioni che si raccolgono qui e là raccontano di una stagione di forte nervosismo nel Carroccio.
E non solo sul capitolo Brancher, su cui aleggia peraltro un sospetto di regolamento di conti interno, che cozza con l’immagine monolitica, di partito senza correnti, che sta a cuore al leader. Perché se forse è eccessivo parlare di correnti del Po, delle aree di potere autonomo e in competizione tra loro dentro il Carroccio si possono senz’altro circoscrivere. Una sintetica mappa: c’è l’area dei colonnelli (Calderoli, Maroni, Giorgetti, più defilato Castelli) che adesso fanno quadrato e non sono più divisi territorialmente come un tempo (i varesini, i bergamaschi etc...). Poi c’è il vertice «romano-leghista», rappresentato dai capigruppo e da Rosi Mauro, sottosegretario e fidatissima di Bossi. Poi ci sono gli «zaiani», l’area che fa capo al presidente del Veneto e che comprende una buona fetta della Lega veneta, ma non tutta, perché la zona veronese è invece fedele a Flavio Tosi, altro «capo corrente» in pectore. Poi c’è, ma meno forte, la Lega piemontese di Cota, e poi una zona variegata che comprende gli «emergenti», una generazione ancor più giovane rispetto ai quarantenni Zaia e Cota, caratterizzata da uno stile più guerriero e radicale, tipo Lega della prima ora (uno su tutti, l’eurodeputato milanese Matteo Salvini). Queste aree di influenza interna, raccontano esperti padani, non sono necessariamente in lotta tra loro, però marcano il territorio, e se c’è bisogno qualche sgambetto se lo fanno.
Ma non è questo il momento di scomporsi e di perdere la proverbiale compattezza leghista. Anche perché di capitoli aperti ce ne sono parecchi. Uno dei più roventi ha il sapore del latte: le quote, la protesta degli agricoltori (tutti padani) sempre più inquieti per i loro problemi inevasi. Nel comizio di Paderno Dugnano venerdì il Senatùr è stato contestato dai suoi, dagli allevatori. «Dovete avere pazienza, ma io non mi sono scordato, ho in mente la soluzione, ma non posso dirla... presto capirete...» li ha rassicurati Bossi. Anche qui, c’è chi giura che la protesta sia pilotata dalla Lega, che così vuol mettere Berlusconi davanti al fatto compiuto: o torniamo noi all’Agricoltura, oppure questi bloccano le autostrade. Un altro colpo diabolico di Bossi? La risposta potrebbe arrivare a brevissimo.
Per ora, in attesa del ritorno di Berlusconi, è lui a prendere a bersaglio dei suoi strali il presidente della Camera: «Fini è morto da solo.

È un alleato di Berlusconi. che possiamo fare? C’è sempre qualcuno che rompe... ma noi andiamo avanti. Se uno attacca tutti i giorni un suo alleato prende pochi voti... Noi dobbiamo fare - conclude - lui può criticare».

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