Brescia dà l’ultimo saluto a Elena «Strangolata con assurda ferocia»

Gabriele Villa

nostro inviato a Brescia

Ferocia, accanimento. «Un delitto orribile dettato da una illogicità comportamentale». Parole che suonano come una requisitoria. Che pesano come una condanna per omicidio volontario.
Fa strano o forse no, non fa strano, in questa Brescia oramai da giorni spaccata a metà fra rabbia e dolore, che le parole del procuratore capo, Giancarlo Tarquini, entrino in rotta di collisione, alla stessa ora, con gli aneliti di speranza e di fede che, giusto a pochi chilometri di distanza, si levano al Cielo dalla chiesa di Mompiano. È appena entrata una bara avvolta da un tappeto di rose bianche, nella basilica di San Gaudenzio. La bara di Elena Lonati, 23 anni vittima, per citare ancora le parole del magistrato di «un’assurda volontà omicida, di quella ferocia, di quell’inutile accanimento che ha portato a sopprimere, strangolandola, una persona che era ancora in vita».
I fatti sono, purtroppo, discretamente noti. Elena, maestra d’asilo, impegnata nel volontariato che, venerdì 18, giorno del suo onomastico, entra nel santuario di Santa Maria, a pochi passi da San Gaudenzio, dove ieri almeno un migliaio di persone, commosse e attonite, le hanno detto addio, per accendere una candela. Si trattiene forse qualche minuto oltre l'orario in cui il portone della chiesa andrebbe chiuso dal sagrestano cingalese Chamil. Il quale si irrita e cerca di spingerla verso l’uscita, come farebbe il più ottuso e manesco buttafuori da discoteca. Elena cade, batte la testa. Chamil che, anziché soccorrerla o chiamare un'ambulanza, decide di far sparire quel corpo. Poco importa se ancora vivo o già morto. «Lo piega in posizione fetale e avvolge su tutto il corpo - rivela Tarquini, referto dell'autopsia alla mano - con estrema forza il nastro adesivo, in una sorta di un impacchettamento micidiale, che si concentra sul collo, stretto con più passaggi. Una morsa assurda che strangola la ragazza, una morsa che fa pensare a una volontà omicida».
Ci sono i bigliettini struggenti d’affetto. E i piccoli gigli e le margherite, che piacevano a Elena, ora sul sagrato di San Gaudenzio. «Pietà, amore, impotenza davanti a fatti che ci lasciano sgomenti»: le parole che, di rimando a quelle di Tarquini, pronuncia nell'omelia monsignor Giacomo Cannobio, vicario episcopale della diocesi e amico della famiglia Lonati, in una chiesa stipata. Davanti agli occhi, velati di lacrime, dei genitori di Elena, Caterina e Aldo, e del fratello Francesco. Stretti, l’uno all'altro, nella prima fila accanto a quella bara marrone. Quasi a voler sostenere, insieme, con unico abbraccio quel peso d'angoscia indicibile. Pietà, amore, impotenza. Ma non perdono. Troppo presto per dire una parola così impegnativa e generosa. «Troppo presto anche per pensarci, al perdono», precisa don Mario Toffari, l'uomo dei migranti come lo chiamano a Brescia, che ieri ha concelebrato la messa d’esequie. Don Mario è anche il parroco della comunità cingalese, mille persone di cui settecento cattolici praticanti. Per questo proprio lui, d'istinto, avant'ieri sera aveva consigliato ai cingalesi di non farsi vedere a Mompiano l’indomani, di non partecipare ai funerali di Elena. «Ho preferito tenere al riparo la cerimonia da qualsiasi rischio di degenerazione. Inutile offrire appigli - confida - a qualche provocatore. Anche se i cingalesi erano e continueranno ad essere ben visti a Brescia, temevo che la loro presenza qui avrebbe potuto innescare qualche reazione isterica». E loro, i cingalesi, ci sono rimasti male. «Ci sarebbe piaciuto essere là - dice Kuhmanage, il presidente della comunità di Sri Lanka - per testimoniare il nostro affetto e la nostra solidarietà alla famiglia di Elena. Peccato. Peccato anche per Chamil: ciò che ha fatto è incomprensibile, io lo conosco bene, non farebbe del male a una mosca. Sappiamo che vuole chiedere perdono ai familiare della ragazza».

Ma, puntualizza ancora don Mario Toffari: «Da una parte c'è il dolore per la perdita di una figlia. Dall'altra c'è un uomo in carcere per ciò che ha fatto. Diamo tempo al tempo. È un percorso lungo, quello del perdono».

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