Fassino appartiene a quel fronte del no che un giorno sì e l'altro pure sostiene - Scalfaro docet - che con la riforma il capo dello Stato perderebbe importanti prerogative e perciò sarebbe ridotto a un attaccapanni. Tanto che replicando a una mia intervista andata in onda l'altro ieri a Porta a porta, il segretario dei Ds ha dichiarato che «non bisogna prendere in giro gli elettori», «non si può dire ai cittadini cose non vere». Ma quale sarebbe stato il mio supposto torto, quello dei colleghi costituzionalisti di Magna Carta e in generale dei sostenitori del Sì? Quello di affermare che la riforma costituzionale sulla quale ci pronunceremo nel referendum di domenica e lunedì non toglie in realtà alcun potere al capo dello Stato. Nell'intervista per ragioni di tempo non ho avuto l'opportunità di motivare il mio assunto. Lo faccio adesso, sicuro che il segretario della Quercia non avrà obiezioni al riguardo. Non foss'altro per il fatto che è ancora fresco di studi, laureato com'è in Scienze politiche.
Ora, non occorre scomodare né lo Zingarelli né il Devoto-Oli per sapere che la perdita di poteri significa che un tempo siano stati effettivamente detenuti ed esercitati a pieno. Bene, che cosa «perde» il presidente della Repubblica? «Perde» il potere di autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi. Ma basta avere una minima conoscenza della storia patria per concludere, tanto per cominciare, che questo potere è un reperto archeologico. Ma sì, un residuato dello Statuto albertino. Allora l'iniziativa legislativa spettava al re, che sanzionava pure le leggi, e a ciascuna delle due Camere. Insomma, il re era il terzo braccio della legge. Ma questi poteri rimasero in definitiva sulla carta. Tanto è vero che nel corso di un secolo la sanzione regia è stata rifiutata una sola volta. Per la precisione, nel 1869, a un disegno di legge che accordava la cittadinanza a tutti gli italiani non regnicoli.
Veniamo all'età repubblicana. Per quanto se ne sa, mai il capo dello Stato ha negato l'autorizzazione alla presentazione di disegni di legge governativi. Ma anche ammesso e non concesso che in qualche raro caso il Quirinale abbia opposto un veto, si tratta pur sempre di un potere irrisorio. Infatti il governo potrà sempre far presentare un proprio disegno di legge ai parlamentari della maggioranza. E, oplà, il controllo del Colle sarà bellamente aggirato. Oso sperare a questo punto che Fassino non neghi l'evidenza e si rassegni a mutare un'opinione che non sta né in cielo né in terra. Non è poi vero che il Quirinale «perderà» il potere di nomina del capo del Governo. Difatti è di solare evidenza che con l'affermazione della democrazia maggioritaria questo potere si è in definitiva trasferito dal Colle agli elettori. Così, a partire dal 1994, è stato nominato automaticamente presidente del Consiglio il leader della coalizione che ha vinto le elezioni. Insomma, il presidente della Repubblica da allora è stato il notaio della volontà popolare.
Dulcis in fundo, il potere di scioglimento parlamentare. Certo, si tratta di una prerogativa del capo dello Stato. Che però non l'ha mai esercitata discrezionalmente. Davanti a crisi ministeriali insolubili il capo dello Stato ha preso atto che la maggior parte delle forze politiche reclamava lo scioglimento anticipato delle Camere. Solo nel 1994 Scalfaro ha fatto di testa sua. Ma era cambiata la legge elettorale e la Repubblica di fatto da parlamentare era diventata semipresidenziale. Se avremo un primo ministro all'inglese, è giusto che sia quest'ultimo ad avere lo scioglimento in tasca. Come nel Regno Unito.
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