Bush aveva ragione, da Bagdad speranza di libertà

L'ex presidente e il suo gruppo avevano capito com i dittatori abbiano i piedi d'argilla

Bush aveva ragione, da Bagdad speranza di libertà

Lasciatemi essere per un momento molto personale, anzi, lasciatemi vantare. Avevamo ragione, e lo dico durante queste quinte elezioni irachene che tutto il mondo, nonostante le difficoltà, definisce come un altro decisivo passo verso una democrazia sì minimalista, in pericolo, ma in decisa ascesa verso la misteriosa composizione del puzzle sciita-sunnita eccetera verso quella magnifica, misteriosa aspirazione umana che è la libertà. L’ex presidente George Bush l’aveva capito, come Natan Sharansky, suo ispiratore che per esperienza in Russia aveva visto come i dittatori hanno i piedi d’argilla, e l’aveva capito anche un gruppo di strapazzati giornalisti e intellettuali. Ci fu pena e disgusto verso tutti questi oscuri neoconservatori, non si capì o non si volle capire niente dell’aspirazione libertaria di base che ne determinava il pensiero: essa fu addirittura scambiata per una specie di neofascismo imperialista. Hybris, petrolio, stupidità, imperialismo. Ce ne dissero di tutte. Non posso dimenticare il senso di sollievo il 15 dicembre del 2005 quando vidi la foresta di dita blu sollevate dopo il voto dalle donne velate e dagli uomini che avevano sfidato, in coda davanti ai seggi, la reazione sanguinaria del saddamismo, del qaedismo, dell’estremismo sciita. Il Corriere della Sera, il 7 febbraio, per la penna di Pierluigi Battista, scrisse in prima pagina che si doveva un risarcimento simbolico a quegli osservatori «da Bernard Lewis a Oriana Fallaci a Paul Berman a Andrew Sullivan a Fiamma Nirenstein» che «si erano affannati a definire, in solitudine e spesso accompagnati da dileggio, “antifascista” la guerra contro Saddam e per l’Irak libero». Molti invece, dall’altra parte, avevano evocato come “resistenza”, spesso marciando in piazza nel rogo delle bandiere degli Stati Uniti, la lotta armata anti-americana in Irak, con la sicumera di chi distribuisce, diceva Battista, «il ruolo dei buoni e dei cattivi». Oggi, quando un candidato importante come Iyad Allawi ci dice che finalmente fra tutti gli iracheni sunniti sciiti curdi arabi esiste la volontà comune di diventare una nazione sì composita, multietnica, ma unita e soprattutto libera, possiamo fidarci. La gente nel suo lungo percorso a ostacoli, torna a votare ormai intorno a una nuova composita classe dirigente locale che per la prima volta si aggrega e si divide secondo interessi espliciti, e non feroci, sanguinose dinamiche di potere. Per arrivare fin qui gli iracheni hanno fatto un cammino difficile, e intorno alla loro sofferenza invece che solidarietà si è sviluppata soprattutto un’attitudine politico-culturale terribile, intellettualmente perversa, in cui al posto del ragionamento troviamo una piccola maledizione nei confronti di Bush che deve essere ritualmente pronunciata a ogni discussione, e si deve salmodiare sugli errori americani come premessa a ogni dibattito. In verità è l’idiosincrasia anti-americana, l’allergia dell’Occidente nei confronti dello scontro, delle sue difficoltà e dei suoi prezzi ciò che si è espresso in tutti questi anni e che ha creato lazzaretti di pensiero. Quello sull’Irak non è stato un dibattito politico, è stata una guerra, la messa al bando intellettuale e politica di chi ha ritenuto dall’inizio una guerra di libertà quella contro Saddam Hussein e non si è scandalizzato sulle sue difficoltà. La guerra di George Bush e della coalizione internazionale che lo ha accompagnato, la sua scelta di battersi fuori del territorio nazionale in base a scelte di sicurezza e di morale contro uno dei più pericolosi e aggressivi dittatori del mondo; soprattutto la sua intuizione evidente, confermata dai fatti e mai smentita che solo battere i dittatori garantisce la pace fra le nazioni e i popoli, è stata un hic rodus hic salta delle cene della borghesia liberal e dell’ideologia base della nostra politica internazionale, è stato uno stabilire le frequentazioni e le regole della conversazione sulla base dei temi dell’appeasement. L’antiamericanismo, spesso unito a teorie della cospirazione come quella contenuta nel libro di Walt e Maersheimer sulla lobby ebraica che detterebbe legge al governo americano, ha trovato nel discorso pubblico sulla guerra di Bush il migliore nutrimento: il presidente americano è stato dipinto come un idiota, la sua simpatia per le battaglie di libertà nei Paesi dittatoriali, per i dissidenti (ho visto di persona il suo sorprendente rapporto con ciascuno di loro alla conferenza di Praga) è stata rovesciata in una avara ed egoista mania petrolifera. Il soldato che ha liberato la popolazione irachena da un giogo sanguinario quanto pochi altri, da un dittatore che ha gassato i suoi cittadini, che ha rapito e ucciso tutti i dissidenti e semplicemente chi non gli piaceva riempiendo a milioni le fosse comuni, che uccideva indifferentemente membri dell’opposizione o della sua famiglia per il potere, è diventato negli editoriali di raffinati opinion maker un oppressore. È sulla guerra dell’Irak, che in troppi hanno immaginato sarebbe finita come la guerra in Vietnam, che è avvenuto il rovesciamento diffamatorio che ha accompagnato insieme a George Bush e anche chi si affannava ad affermare le ragioni della libertà e della pace. Qui si dimostra un immenso potere dell’ideologia falso-liberal sulla politica internazionale, la capacità ideologica di rovesciare il torto in diritto e viceversa. Divento di nuovo per un attimo molto personale: siamo sempre stati fra quei pazzi che sostenevano perfino che le armi di distruzione di massa erano chiaramente nelle intenzioni di Saddam quali e quante ne siano state trovate successivamente all’invasione, che non a caso aveva subito da Israele l’attacco sul reattore nucleare di Osirak. Saddam voleva le armi di distruzione di massa e probabilmente ne aveva: il loro accumulo è stato testimoniato da parecchi ispettori dell’Onu persino se poi non sono state trovate dalle truppe americane. Le armi di distruzione di massa, botulinus, antrax, sono fatte spesso di minuscole spore contenute in recipienti facilmente trasportabili in qualche cortile, che so, in Siria o altrove, e nessuno può provare, né mai ha provato, che simile trasferimento non sia stato compiuto. Semmai ci sono prove che testimoniano il contrario. Si sa solo che le armi non sono state trovate, e assieme a questo si sostiene che il tema era pretestuoso perché, è noto, è evidente, lo sanno tutte le persone dabbene, Bush era avido di petrolio e anche un po’ fascista. Niente potrà dimostrare il contrario a chi non vuole sentire, e che non si accorgerà neppure, come invece ha testimoniato coraggiosamente Newsweek e altri giornali di sinistra americani, che Bush aveva ragione. Dall’Irak non è uscito un fiume di petrolio per gli americani, ma una speranza di libertà per tutto il Medioriente. Adesso, l’indicazione neo conservatrice sul tema non è mai stata quella dell’importazione sulla punta del fucile, ma l’idea del supporto alla costruzione di istituzioni e aggregazioni della società civile.

Qui si verifica lo spessore dell’aspirazione alla libertà. Questa è la parte che si apre ora, ed è, scusate, di ispirazione neoconservatrice. Niente imbrogli e boria liberal, stavolta.
Fiamma Nirenstein

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