Bush: «Entro l’anno la pace in Palestina»

Negli anni 90 mi mandava gli articoli che scriveva e in cui spiegava la sua visione del mondo

da Ramallah

«Alla fine del mio secondo mandato, il trattato di pace sarà pronto». Sorrisi e applausi nel salone della Mukata risistemata e abbellita, dove tante volte Arafat e i suoi uomini, ancora tutti là con Abu Mazen molto contento di accogliere Bush, hanno comunicato le loro risoluzioni ai giornalisti: stavolta, George Bush a fianco di Abu Mazen lo riscalda e fortifica con la sua presenza, e promette la pace in tempo per godersela. Ma, al di là delle cerimonie, alla fine l’atmosfera non è più la stessa. I check point, i confini del ’67, le costruzioni negli insediamenti, la sicurezza di Israele, la lotta contro Hamas. La logica di Bush non combacia con quella palestinese. La lotta al terrorismo chiede il suo tributo, e Bush glielo concede. Per esempio, a una domanda sui check point la logica americana di Bush fa scandalo: «So che gli israeliani vi fermano anche per due ore, e mi dispiace. Ma il motivo è la sicurezza. A me, non mi hanno fermato. Con la pace, i check point chiuderanno». Dignitari e giornalisti erano stupefatti. E Hamas? Bush non ha avuto pietà per Fatah: «Sta a voi e solo a voi fermarlo, o volete che questa feroce organizzazione che ha distribuito assassinii agli israeliani e disgrazie al proprio popolo, determini il vostro destino?».
Troppo americano? Forse, ma Bush ha cercato di compensare i palestinesi con la promessa del suo impegno, che vuol dire denaro e pressione su Israele, e fede in Abu Mazen: lo ha chiamato più volte «president» e non «chairman» come nel passato, mentre eguali, l’una accanto all’altra, si levavano le bandiere americana e palestinese. Molte le parole di fede nella pace («ci credo perché vedo la forza dei due leader»), le promesse a essere là a sostenere lo sforzo («con l’aiuto necessario, nell’interesse non solo dei palestinesi e degli israeliani ma di tutto il mondo»). Bush ha cercato di apparire imparziale, dando un colpo al cerchio («l’occupazione deve finire... parliamo di uno Stato con territori contigui, non di un gruviera svizzero») e uno alla botte («la sicurezza degli israeliani deve essere assicurata... potete rimanere inchiodati al passato ma questo non porterà niente di buono ai palestinesi»).
Abu Mazen ha ribadito il suo impegno a raggiungere un accordo, ha detto che la visita riflette il desiderio di pace dei palestinesi: ha sfidato l’odio di Hamas e di chi ha sparato. durante la visita. ben 20 missili su Sderot.
Alle sette, quando Bush ha incontrato i figli di Ariel Sharon e poi Bibi Netanyahu, avrebbe dovuto godere l’aurora sulla Città vecchia. Invece Gerusalemme gli ha mostrato un volto impenetrabile, candido. Bagnato. Bush così, invece di usare l’elicottero, ha dovuto viaggiare attraverso i check point di Ramallah, mentre la Sicurezza impazziva e gli abitanti della cittadina venivano bloccati in casa; ha pagato la mancata visita alla tomba di Arafat con un grande ritratto del raìs piazzato proprio dove parlava ai giornalisti; la gente per strada osannava uno strano sosia del raìs, con keffiah e divisa. Dopo la visita Bush è volato a Betlemme e ha visitato la chiesa della Mangiatoia. A sera la sorpresa, un discorso di cui i palestinesi non saranno contenti: i due Stati devono convivere l’uno accanto all’altro lo Stato palestinese patria dei palestinesi, quello d’Israele per il popolo ebraico, ovvero: nessun sogno di distruggere Israele; per la suddivisione territoriale, Bush non ha fatto riferimento ai confini del 1967: ha parlato di accordi che riflettano i cambiamenti avvenuti sul terreno, ovvero di possibili scambi territoriali. Bush inoltre non ha più parlato di «diritto al ritorno» ma di «soluzione per il problema dei profughi» e di «compensazioni economiche necessarie».

Di nuovo, della sicurezza di Israele. Non ha detto una parola sulla richiesta di fermare ogni costruzione soprattutto a Gerusalemme est. Andandosene, ha detto in sostanza «fate voi, ma fatelo entro l’anno». E così comincia una nuova, terribile mischia.

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