Bush in Mongolia per conoscere il futuro della Cina

Massimo Introvigne

Il problema cui Bush ha consacrato il suo viaggio in Asia è come trasformare la seconda potenza del capitalismo mondiale, la Cina, in un Paese democratico. Tra l’altro, in una Cina democratica il costo del lavoro non potrebbe più essere così basso da rendere impossibile al resto del mondo reggere l’urto dei suoi prodotti.
C’è un Paese, che Bush ha visitato ieri, che assomiglia alla Cina, e che è già passato dal comunismo al capitalismo, quindi dal capitalismo comunista al capitalismo democratico: la Mongolia. Mongoli e cinesi si sono combattuti per secoli, ma il dialogo millenario fra le loro culture fa anche sì che i due Paesi abbiano molto in comune. Condividono anche una lunga esperienza del comunismo: la Mongolia è diventato il secondo Paese comunista del mondo dopo la Russia, e la Cina il terzo. Una serie di «rivoluzioni culturali» qui ha fatto settantamila morti, tra cui almeno ventimila monaci buddisti.
Ben prima di Gorbaciov o delle riforme cinesi, la Mongolia ha introdotto elementi di «capitalismo comunista». E dopo la caduta dell’Unione Sovietica la Mongolia ha avuto la sua «rivoluzione» nel 1991, che si è tradotta in un gigantesco programma di privatizzazioni. Anzi, le autorità mongole hanno spiegato a Bush che il programma di privatizzazioni guidato dalla Banca Mondiale è stato troppo rapido. La Mongolia è abitata per un buon terzo da nomadi, per cui la proprietà degli animali - in teoria dello Stato - era di fatto comune a gruppi familiari allargati. La «privatizzazione» ha comportato pratiche burocratiche difficili da capire e non ha cambiato gran che. In un paesino sperduto del Gobi io stesso qualche mese fa ho visitato un emporio - per gli amanti di cinema, lo stesso che appare nel film, arrivato anche in Italia, Il cammello che piange - che è stato «privatizzato» dividendolo in stanze di cui ciascun commesso è diventato proprietario: ogni stanza vende un po’ di tutto, e gli affari non vanno molto bene.
Comunque, la Mongolia è oggi un Paese fondato su un’economia di mercato, e qui è già successo quello che ci si aspetta da anni in Cina. Dopo la libertà economica, la popolazione ha chiesto la libertà religiosa e politica. Senza rivoluzioni cruente, una serie di scioperi della fame di studenti e intellettuali hanno convinto il Partito comunista a concedere libertà di stampa, di religione e di fondazione di partiti. Concesse le elezioni, il Partito comunista ha cambiato nome e si è organizzato per vincerle. Di fronte alla scarsa esperienza dei concorrenti, ha stravinto le prime del 1996. Ha perso le seconde del 2000, ma nel 2004 comunisti e democratici hanno avuto esattamente lo stesso numero di seggi, dando vita per amore o per forza a una grande coalizione, che mantiene truppe mongole in Irak e Afghanistan.
La Mongolia ha solo due milioni e mezzo di abitanti, ma il suo esperimento che potrebbe ripetersi nell’immensa Cina. Salendo la pressione che deriva dalla libertà economica, il Partito comunista finisce per concedere libertà politica e religiosa senza che si spari un colpo, perché pensa che la sua superiore organizzazione gli consentirà comunque di vincere le elezioni.

La lezione mongola per la Cina è che se l’Occidente vuole una democrazia dove quello comunista non resti per decenni il primo partito deve aiutare l’opposizione a dotarsi non solo di programmi economici realistici e graduali ma anche di tecnologia elettorale. A queste condizioni, la serie di passaggi che Bush ha visto di persona in Mongolia può anticipare quello che succederà in Cina.

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