"La caduta del muro di Berlino fu la fine delle ideologie del '68"

Massimiliano Finazzer Flory, assessore milanese alla Cultura, ripropone l'arte come promessa di felicità e lancia un appello a pubblico e privati per una collaborazione che dia forma artistica alle contraddizioni dell'epoca

"La caduta del muro di Berlino 
fu la fine delle ideologie del '68"

Milano - I reality spadroneggiano in televisione. I teatri sono in crisi. Ci sono più scrittori che lettori. A lungo andare si è parlato di una cultura malata e, perlomeno, priva di bussola. "Il male della cultura oggi è di essere auto-denigratoria". Massimiliano Finazzer Flory è assessore alla Cultura per il Comune di Milano, ma prima di tutto è un intellettuale che guarda alle nuove sfide lanciate da un'Italia ancora 'martoriata' dal secolo lungo. "Oggi la cultura non riesce a porsi il problema di inventare e costruire un’alternativa al potere esistente da cui essa, direttamente e indirettamente, in questo Paese ancora non poco dipende".

In molti già parlano di morte della cultura. Siamo davvero a questo punto?
"La morte è una parola culturale. Quindi, se la cultura parlasse di morte, direi che la cultura è viva. Semmai non si parla di vita. E non parlare di vita significa assegnare alla cultura il compito di celebrare la necrofilia e alimentare, soprattutto, narcisismo e nichilismo di cui proprio non abbiamo bisogno."

L’anno scorso è stato celebrato il quarantennale del ’68. Ancora si dibatte sul terrorismo. Sembra quasi ci sia una certa nostalgia di quel modo di "fare cultura". Eppure a una corposa fetta di italiana non dice più nulla.
"Più che di ’68 si dovrebbe parlare di ’89: la caduta del muro di Berlino è una cifra simbolica della caduta dei muri che il ’68 ha alzato. Muri i cui mattoni sono pregiudizi e stereotipi, muri che, spesso, hanno diviso il pubblico dal privato, l’etica dall’estetica, l’individuo dalla folla, il pensiero dal piacere."

Quale il legame tra pensiero e piacere?
"Si continua a pensare al pensiero sottratto al piacere. Pensare fa felici. Io sono con Stendhal: l’arte è una promessa di felicità, ma la premessa di una promessa è l’inquietudine. Proprio per questo credo a una cultura che abbia un pensiero sistemico che non si sottragga alla complessità ma che, anzi, la ami. Il compito di un intellettuale è dare forma artistica alle contraddizioni politiche del suo tempo."

Per troppo tempo sono state fatte differenze all’interno della cultura. Gaber diceva: la doccia è di destra, il bagno è di sinistra. Per molti anni la stessa sinistra ha avuto un predominio sulla cultura. Per quale motivo?
"Rispondo con Longanesi: la destra in Italia? Ma se non c’è neanche la sinistra! Questo è un Paese che passa dall’acqua minerale all’acqua santa con estrema facilità. Una volta, ‘destra’ e ‘sinistra’ erano categorie spaziali, categorie che si riferivano alla posizione occupata in Parlamento. Rispetto al governo. A me pare che oggi ‘destra’ e ‘sinistra’ siano categorie di mercato e che la sinistra sia un mercato di consumatori della cultura molto importante. Questo spiega perché viene costantemente legittimato e alimentato dai media, tutti."

Ed è così impossibile al giorno d’oggi fare un salto di qualità e ipotizzare una cultura fine a se stessa che sia de-ideologizzata?
"No, non è difficile. Mi confronto ogni giorno con innumerevoli intelligenze e talenti senza pormi il problema se queste siano di destra o di sinistra. Larga parte dei nostri giovani ha contenuti e idee chiare di come orientare la cultura per emanciparsi da una povertà che, non di rado, li vincola. Le frontiere della cultura non sono più interne alle università. Le frontiere sono il design applicato al decoro urbano, l’arte contemporanea che rompe l’ovvietà della città, il neuroscienziato che dialoga col filosofo e entrambi sono consulenti di un’impresa. La performatività è frontiera della cultura: lontana dalle categorie pure. Si tratta, perciò, di capire che l’innovazione è rendere nomade la tradizione."

Una sfida difficile.
"Certo. Perché una tradizione nomade esce dalle sedi. Per cui il parroco non sta dentro la chiesa e il credente non sta di fronte al crocifisso, ma è il crocifisso stesso a uscire fuori ed è la chiesa che si destruttura."

A livello pratico quante persone riescono ad usufruirne? I “giovani” intellettuali si possono contare sulle dita di una mano.
"Non sono molti, ma non sono nemmeno pochi. Da milanese che vive in Europa, quale sono, mi sento che devo essere io a dover seguire i giovani e non viceversa, E i giovani vanno e vengono: la sfida è appunto applicare le categorie del nomadismo contro quelle della stanzialità. Oggi, i nostri artisti vanno a Berlino piuttosto che a Milano non perché amino la capitale tedesca, ma perché lì il prezzo al metroquadro di un atelier è inferiore a quello che io posso offrire nel capoluogo lombardo. Le regole economiche stanno, dunque, disciplinando i flussi sociali degli uomini e delle donne di cultura. I giovani sono, infatti, i primi ad adottarle."

Cosa bisogna fare?
"Innanzitutto rovesciare la questione: far sì che Milano non sia terra di conquista ma che possa catturare i cervelli in fuga dal resto del mondo."

L’Italia ha la maggior parte del patrimonio culturale e artistico del mondo, ma soffre della sindrome dell’eterno secondo. Dove sbaglia?
"Su questo sono futurista. Quando Martinetti dice che una macchina in corsa è più bella di una Vittoria di Samotracia, intende dire che, se continuiamo a vivere i nostri beni culturali musificati, mummificati, impolverati e privi di inquietudine, allora è molto meglio una civiltà delle macchine. Noi abbiamo un’interpretazione del nostro patrimonio passatista."

Portare, dunque, le opere d’arte fuori dai musei?
"Certo. Le opere d’arte si devono muovere: bisogna avere il coraggio di collocarle in luoghi inaspettati. Sul piano registico un’opera che si sposta deve avere un rapporto con l’altrove. Quando abbiamo esposto La conversione di Saulo a Palazzo Marino o abbiamo curato le danze verticali di una compagnia francese coreografando La città che sale di Boccioni e mettendola in scena sulla facciata di Palazzo Marino, abbiamo voluto provocare una riflessione tra l’opera d’arte e il palazzo del potere. Questo però, alla luce del fatto che Milano sta per inaugurare due importanti musei, non significa che il rapporto tra il contenitore e il contenuto non debba essere dialettico. Insomma, un equilibrio dinamico e non stabile."

Questo è quanto può fare un’amministrazione, statale o ente locale che sia, oggi però si inscena una fervida polemica sui fondi pubblici al teatro. Quale deve essere il rapporto Stato-cultura e privati-cultura?
"Larga parte dei finanziamenti pubblici adottano il criterio della spesa storica: 'Si è sempre fatto così, e si continua più o meno a fare così'. E’ una sciocchezza dal momento che la spesa storica non valuta la meritocrazia, ma si fida della continuità senza dir nulla sul criterio della novità. Spesso si accede ai finanziamenti pubblici come si accede a un bancomat di cui tutti sanno, però, il codice segreto."

Insomma, bisogna ripensare tutto il sistema?
"Certo. E bisogna farlo almeno in tre punti. Per prima cosa l’istituzione pubblica può e deve offrire cornici di senso, una strategia e degli obiettivi a cui il mercato può e deve orientarsi. In secondo luogo gli strumenti di sburocratizzazione e agevolazione dell’apporto del privato al pubblico sono ancora insufficienti. Mi spiace dirlo, ma non c’è governo – che sia di destra o di sinistra – che abbia fatto la differenza in questo settore."

Il privato è legato?
"In Italia abbiamo un patrimonio di collezionisti privati che non aspetta altro che muoversi nella direzione della donazione. Così, se da una parte bisogna facilitare l’apporto alla sfera pubblica dei collezionisti, dall’altra c’è l’esigenza di dare maggiore visibilità agli sponsor. Su quest’ultimo argomento, tuttavia, ci sono ancora resistenze da parte dei mezzi di comunicazione."

Cosa bisogna fare, allora?
"Aprire un tavolo e fare una sorta di 'albo' di imprese che ci starebbero a investire nella cultura se l’istituzione si fa garante della trasparenza dei rapporti e della qualità dei risultati. Accanto alla sfida dell’albo lancio anche quella dell’asta: bisogna iniziare a pensare a strumenti a favore delle istituzioni pubbliche laddove queste abbiano la possibilità di trasformare l’acquisizione di opere d’arte in sostegno dei privati e in campagna d’informazione a sostegno della crescita del territorio."

Ultima via per ripensare il sistema?
"La terza questione è dettata dagli spazi che, spesso, i privati chiedono al pubblico. Se recupero spazi inutilizzati o mal-utilizzati ed espongo opere di privati, da un lato valorizzo i miei spazi e dall’altro offro ospitalità alle opere o alle attività culturali altrui."

Troppo spesso, però, vengono riqualificati spazi centrali, raramente si pensa alle periferie. Perché?
"La dialettica centro-periferie va ripensata. Bisogna, nell’ambito urbanistico, realizzare nuove strutture per la cultura in un virtuoso rapporto tra interessi privati e pubblici. Un esempio: se un’impresa intende costruire in periferia un nuovo centro commerciale, può farlo a patto che edifichi anche una biblioteca o un museo. Se però l’amministrazione pubblica – come direbbe Charles de Gaulle – non ha una certa idea del luogo in cui governa, è difficile pensare che sia capace di chiedere un progetto sensato. Se l’amministrazione non sa cosa chiedere, si crea un vuoto di potere che viene poi occupato da altri soggetti che, invece, sanno benissimo cosa fare."

Un’ultima provocazione: cosa fa

cultura oggi in Italia?
"Nel bene e nel male?"

Certo.
"Nel bene l’arte contemporanea e l’editoria che si occupa di saggistica. Nel male l’utilizzo del giornalismo non a fini informativi."

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