Le cannonate di Bava Beccaris sui milanesi armano la mano di Bresci

Tra il 6 maggio e il 9 maggio 1898 la città fu scossa dalla "protesta degli stomaci", moti popolari contro l'aumento del grano. Il re Umberto I mandò a domare la rivolta il vecchio generale piemontese che usò l'artiglieria, uccidendo almeno 300 persone. E due anni dopo il sovrano fu assassinato a Monza dall'anarchico toscano

Le cannonate di Bava Beccaris sui milanesi armano la mano di Bresci

All'inizio fu un aumento del grano da 35 a 60 centesimi al chilo, poco sulla carta, un'enormità per chi di fatto si nutriva di solo pane. E così scoppiarono le prime agitazioni, gli scioperi, le manifestazioni per quella che dovette passare alla storia la «protesta dello stomaco». Una protesta che si estese rapidamente in tutt'Italia raggiungendo toni particolarmente drammatici tra il 6 e il 9 maggio 1898 a Milano dove Bava Beccaris prese a cannonate la folla. E fu strage. Impossibile ancora adesso a distanza di quasi 120 anni, sapere quanti furono i morti. La prefettura ne accertò 88 ma per le forze d'opposizione furono molti di più: i numeri presero a rimbalzare a 118, poi 300, forse la stima più attendibile, quindi 800 fino a diventare mille in un canzone popolare.

L'unica cosa certa che dopo le «quattro giornate di Milano» del 1898, per l'opinione pubblica, non solo di sinistra, l'anziano ufficiale diventò un brutale sicario e Umberto I il suo mandante. L'odio popolare crebbe nei mesi successivi fino a quando, il 29 luglio 1900, l'anarchico Gaetano Bresci «vendicò» le vittime milanesi con tre colpi di pistola che colpirono il sovrano a spalla, polmone e cuore. Chiudendo una vicenda iniziata nella primavera di due anni prima. Nell'aprile del 1898 infatti l'aumento del costo del grano, causato dagli scarsi raccolti, fece esplodere la proteste in diverse piazze italiane. Le prime agitazioni ebbero luogo in Romagna e Puglia il 26 e 27 aprile, per poi estendersi a macchia d'olio e in forma sempre più accesa, nel resto del Paese, tanto da indurre il governo a decretare lo stato d'assedio per Firenze il 2 maggio e per Napoli, due giorni dopo.

A Milano il malcontento esplose il 6 maggio all'ora di pranzo, quando la polizia fermò in via Galilei alcuni operai della Pirelli sorpresi a distribuire volantini contro il governo presieduto Antonio Starabba, marchese di Rudinì, rappresentante della destra storica. Gli arrestati furono poi rilasciati ma ormai la tensione era salita alle stelle e alle 18.30 una folla di un migliaio di persone prese d'assedio la Questura, allora in via Napo Torriani. Partirono i primi colpi d'arma da fuoco che ferirono mortalmente due manifestanti e un poliziotto. Il 7 maggio fu dichiarato lo sciopero generale che ben presto divenne rivolta aperta e dai cortei si passò alle barricate a Porta Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana, Porta Ticinese e Porta Garibaldi. Il governo decretò lo stato d'assedio anche per Milano, nominando al generale Fiorenzo Bava Beccaris Regio commissario straordinario.

Ufficiale di carriera, 67 anni, reduce delle guerre di Crimea e della seconda e terza d'Indipendenza, mise il suo quartiere generale sul sagrato del Duomo, decidendo di muoversi come in un campo di battaglia. E come in un campo di battaglia misurò le forze in campo, 4mila tra soldati e agenti di polizia per contenere 30/40mila mila manifestanti e passò all'azione. Inizialmente fece intervenire la cavalleria, ma le barricate ostacolavano le cariche e presto l'azione si disperse in mille piccoli scontri. L'8 maggio gli scontri ripresero. A Porta Ticinese venne eretta una barriera che avrebbe respinto qualsiasi attacco, anche per la presenza di centinaia di manifestanti. E Bava Beccaris rispose con i cannoni. I pezzi caricati a mitraglia della 2° batteria a cavallo spazzarono la piazza, provocando un numero imprecisato di morti e feriti, ma soprattutto lo sbandamento dei dimostranti. Tanto che in serata Beccaris potè telegrafare a Roma che la rivolta si poteva considerare domata. Gli scontri invece continuarono anche il 9 maggio, con scariche di fucileria da entrambe le parti. Così il vecchio generale decise di ricorrere nuovamente ai cannoni con i quali venne abbattuto il muro di cinta del convento dei Cappuccini di viale Piave dove si sarebbero rifugiati alcuni rivoltosi.

L'uso spregiudicato dell'artiglieria piegò effettivamente la rivolta, causando però un bagno di sangue mai quantificato. Secondo la Prefettura, le vittime accertate furono 88, 400 i feriti mentre secondo il cronista e politico repubblicano Paolo Valera, sarebbero state almeno 118 e i feriti oltre 400. Alcune fonti fecero salire il numero dei morti prima a 300, forse la stima più probabile, altre addirittura a 800. Per evitare conseguenze infatti molti familiari di morti e feriti non denunciarono i decessi né portarono i parenti all'ospedale. Tra i soldati invece ci sarebbero stati due morti: uno si sparò accidentalmente, l'altro fu fucilato sul posto per essersi rifiutato di aprire il fuoco sulla folla.

La sanguinosa repressione fruttò a Fiorenzo Bava Beccaris, poi passato alla storia come «il macellaio di Milano», la croce di Grande Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia il 5 giugno e la nomina a Senatore il 16. Negli anni Dieci fu un accanito sostenitore dell'entra in guerra dell'Italia quindi, fascista convinto, tra i primi a suggerire a Vittorio Emanuele III la nomina di Benito Mussolini a presidente del Consiglio.

Nel frattempo però i riconoscimenti all'ufficiale avevano scavato un solco tra la monarchia e ampi strati della popolazione che mai avevano particolarmente amato quel sovrano. Umberto I era già scampato a un primo attentato il 17 novembre 1878 a Napoli, quando l'anarchico Giovanni Passannante tento di colpirlo con un coltello al grido «Viva Orsini, viva la repubblica universale». Il re parò il colpo con la spada, rimanendo lievemente ferito. Un'aggressione analoga il 22 aprile 1897 a Roma da parte di un altro anarchico Pietro Acciarito ma ancora una volta Umberto I si accorse in tempo dell'agguato e schivò il colpo. Nulla potè però il 29 luglio 1900 quando un terzo anarchico, Gaetano Bresci, si avvicinò alla carrozza che lo stava trasportando a Monza per cerimonia di chiusura del concorso ginnico della sportiva «Forti e Liberi». Quel giorno infatti faceva un gran caldo e il re aveva rinunciato alla cotta di maglia di ferro, una sorta di giubbetto anti proiettile anti litteram.

Bresci gli si parò contro colpendo il monarca con tre proiettili. Umberto I riuscì a mormorare «Avanti, credo di essere ferito» poi svenne e quando arrivò alla villa Reale era ormai privo di vita. I morti della protesta dello stomaco di due anni prima a Milano erano stati vendicati.

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