Il capo dei Pm ordina alla polizia: carceri piene, non arrestate più

Le carceri italiane, lo sanno tutti, «scoppiano». «Scoppiano» anche le carceri di Venezia, e quel Procuratore della Repubblica, Vittorio Borraccetti, ha diramato disposizioni nelle quali si prevede che chi sia arrestato in flagranza di reato venga giudicato subito, senza passare per il carcere. Nell’attesa del processo rimarrà in custodia alle strutture di polizia. Qualora anch’esse si rivelassero inadeguate l’imputato potrà essere liberato. Ci troviamo qui di fronte alla iniziativa d’un singolo magistrato per limitare, nell’area di sua competenza, il numero dei detenuti. Questo mentre a livello governativo si discute d’un piano complesso per l’edilizia carceraria e di misure che decongestionino i penitenziari. L’idea che se ne ricava è di scarso o nullo coordinamento, e di un’autonomia incontrollata di certi uffici periferici nei confronti del potere centrale.
Non m’interessa di criticare le disposizioni di Borraccetti: il quale, oltretutto, afferma d'essersi limitato a richiamare ciò che è disposto dall’articolo 558 del Codice di procedura penale. Sarà così, non ho motivo di dubitarne. Ma allora perché quella norma non è stata sempre applicata in passato e ci vuole l’intervento d’un Procuratore della Repubblica per ridarle attualità? E poi: essendo la situazione carceraria altamente critica, dovunque, se qualcosa si deve fare non è opportuno che lo si faccia in sede nazionale, e non soltanto in sede veneziana? Borraccetti ha sicuramente agito con le migliori motivazioni e intenzioni. Ma in tempi di ricorrente tensione tra il governo e i giudici, affiora il sospetto di un ennesimo sgarbo al ministero.
Il cittadino fatica a raccapezzarsi davanti a problemi, come questo, che sono insieme giuridici, organizzativi ed economici: dunque ingarbugliatissimi. Ma, per dirla in breve, il timore è che gli snellimenti si traducano sì in una diminuzione dei reclusi, ma anche in un aumento di microcriminali in libertà. Il che è esattamente l’opposto di quanto le autorità competenti auspicano e annunciano. Magari sbaglierò. Ma immagino che dopo un arresto in flagranza potrebbero verificarsi mille inciampi cavillosi per il processo immediato, e le strutture di polizia risulterebbero inadeguate per rinchiudervi gli arrestati, e in definitiva la soluzione più comoda e rapida - sollecitata a gran voce dai difensori - sarebbe quella di aprire i rituali fascicoli e metterli fuori. In attesa della immancabile e provvidenziale - per i delinquenti - prescrizione.
Questo delle carceri è uno dei tanti temi per i quali la giustizia italiana procede a zig-zag, tra stentorei inni al rigore nei comizi e disperati lamenti, in sedi meno esposte, per l’impossibilità di far espiare le pene. Borraccetti - se lo sia proposto o no - rischia d’aver suggerito un tacito «tutti a casa». L'insinuazione, va da sé , è respinta con sdegno. Ma può trovare credito.
Un analogo sospetto investe il guardasigilli Angelino Alfano per aver proposto che siano lasciati agli arresti domiciliari i condannati cui resta da scontare solo un anno di galera; e inoltre che siano messi alla prova - ossia non rinchiusi in cella - gli imputati per reati la cui pena massima non superi i tre anni di reclusione. Qualche migliaio di detenuti sarebbe così rimandato a casa - è stato precisato che il provvedimento non si applica ai senza fissa dimora - ma quanti agenti o poliziotti saranno necessari, se la proposta verrà accettata, per verificare che il domiciliato non si dedichi, mentre in teoria è bloccato tra quattro muri, ad un operoso malaffare, o non se ne vada a spasso? Già le forze dell'ordine sono oberate di compiti - tra essi le «scorte» delle quali ho l’impressione si abusi - e faticherebbero ad assolverne di nuovi. Che se poi i controlli avvenissero a campione, come quelli dei passeggeri senza biglietto sui tram, gli arresti domiciliari si trasformerebbero in una burletta.
Al ministro dell'Interno Maroni - che dovrebbe procedere alla verifica degli arresti domiciliari - l’idea di Alfano non è piaciuta. L’ha bollata come «indulto mascherato». Ignazio La Russa, ministro della Difesa e avvocato, ha in sostanza condiviso queste forti perplessità su una legge «che non vorrei mai firmare». Ci vuole il soave ottimismo di Sandro Bondi per sostenere che «da nessuno queste norme possono essere interpretate come un allentamento del rigore».
Non possiamo pretendere miracoli né dal governo né dai magistrati né dalle forze dell’ordine quando s’imbattono in aggrovigliatissimi nodi, formatisi durante decenni di errori, di lassismi sconsiderati, di utopie dissennate e anche di imperdonabili negligenze. Le emergenze sono di solito il frutto velenoso di vecchie carenze. Miracoli l’uomo della strada non ne pretende, ma un po’ di razionalità gli piacerebbe.

Sarebbe bello che il Palazzo dei partiti e i palazzacci delle toghe trovassero, in una materia che deve essere depurata da sottofondi e inquinamenti politici, il modo di agire insieme. Per il momento invece si ha l’impressione che ciascuno proceda per conto suo.

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