Roma Leffetto forse più paradossale, in tutto il gran pasticcio della maggioranza divisa e prossima alla separazione, in fondo è tutto qui: che chi dovrebbe approfittare del caos per puntare alle elezioni non le nomina neppure, e chi semmai ragiona di voto anticipato, per buttare allaria castelli e trame da retrobottega partitico, è proprio lui, il presunto prigioniero di finti amici e nemici veri, insomma il Cavaliere. Cè un plotone di esecuzione pronto ad affossarlo, dai terzopolisti allopposizione sempre più impalpabile, ma cè la probabilità molto elevata che le armi imbracciate da quellesercito abborracciato siano scariche, o quantomeno a salve. Perché se lazione di logoramento interno dei finiani, con la sponda delle associazioni culturali di Montezemolo, lattesa vigile dellUdc, i richiami alla nazione di Rutelli, le avances di Bersani ai «contraenti» della maggioranza (finora respinte con perdite), in qualche modo hanno sortito leffetto di scompaginare una coalizione finora salda, più difficile - molto più difficile - è immaginare la fisionomia di un post-governo Berlusconi.
Innanzitutto per i numeri, scarsi e nemmeno certi. Quelli di Fini e dei suoi gregari, che se operano alacremente per la disgregazione del potere berlusconiano, sanno benissimo di lasciare il certo per lincerto mollando Silvio (si vedano le ultime dichiarazioni «pacifiste» dellultras finiano Bocchino...), e di andare incontro ad una disfatta clamorosa se il braccio di ferro dentro il Pdl dovesse misurarsi nel segreto delle urne. Perciò i finiani sono costretti a seguire la strategia del virus, che cerca di annientare lorganismo ospite dallinterno, non avendo i mezzi per eliminarlo o farlo cadere altrimenti. Però, vista così, chi è davvero prigioniero di chi? Fini, in fondo, ha finito per ereditare lo stesso micidiale complesso della sinistra, condannata a darsi un senso soltanto in opposizione al Cavaliere. Fuori da quella dialettica anti-berlusconiana, tuttavia, resta solo il miraggio di un governo della nazione, di una coalizione unita dal patriottismo e dal senso delle sacre istituzioni, da Fini a Casini, da Rutelli ai transfughi del Pdl, dal Pd fino a Di Pietro. Uninvenzione linguistica affascinante, ma più facile a dirsi che a farsi.
Ecco, Casini. Il presidente dellUdc è un altro candidato per imbastire le idi di marzo del governo Berlusconi. In realtà, anche qui, chi rischia veramente la caduta è più lattentatore che non Cesare. Tantè vero che il leader centrista si guarda bene dallevocare le elezioni, prospettiva che sarebbe la più naturale in caso di crisi, ma che è invece una iattura se si ragiona utilitaristicamente, previsioni di voto alla mano. Casini si diffonde invece molto sulle «larghe intese», espressione da prima Repubblica che può voler dire tutto e il suo contrario. Il giornale più vicino allUdc, Liberal, ieri spiegava chiaramente in un fondo che «serve una nuova maggioranza per superare il caos», ma «visto che unalternativa elettoralmente intesa non cè né si profila allorizzonte, non rimane che trovare una soluzione politica parlamentare». Sì, ma con chi? Con i «traditori» finiani o con la reggenza berlusconiana? Una cosa è certa: lUdc, custode dei valori cristiani ma anche dellantica scaltrezza democristiana, sta ben attento a non sbagliare campo buttandosi nella mischia troppo frettolosamente.
Visti così, lesercito «nemico» si ridimensiona molto. Tutti hanno le spalle meno larghe del premier, e in molti casi ne dipendono ancora. Che tra questi ci sia anche il leader del Pd, è un paradosso che la dice lunga sullo stato dellopposizione. I Democratici sembrano svaniti nel nulla, avendo delegato la loro funzione alla maggioranza stessa, che si fa la guerra da sola, senza bisogno alcuno di Bersani, Franceschini o Veltroni redivivi. Anche per loro, inutile dirlo, il voto sarebbe un altro bagno di sangue.
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