«Con Casini il simbolo dei democratici è la poltrona»

RomaMarco Rizzo, un fantasma si aggira nel nuovo centrosinistra: l’alleanza con l’Udc di Casini.
«Sì, ho sentito riecheggiare questa presunta necessità di rafforzare il centrosinistra con l’apporto dell’Udc...».
La fa arrabbiare Casini?
«Non ce l’ho con Casini, semmai con la sinistra che lo chiama. Pur di arrivare a eleggere uno striminzito consigliere, ancora una volta ci si dimostra pronti a fare quello che non si sarebbe mai dovuto fare... Il passaggio da una sconfitta all’altra non ha ancora insegnato nulla».
Qual è la «lectio magistralis»?
«Una sinistra che pensa solo alle collocazioni di potere, e non a difendere il popolo dei lavoratori, è una sinistra che perde. Un motore che gira a vuoto e non ingrana mai la marcia per andare avanti. A questo punto, la ricerca di nuovi simboli è bell’e fatta: mettiamoci una poltrona, nel logo».
Amara constatazione... La famosa gag di Alighiero Noschese con i ministri dc attaccati alla poltrona con il Vinavil si ripete persino in partiti che si dicono comunisti.
«Purtroppo è così. Non hanno ancora capito che peggio di una sinistra fuori dal Parlamento c’è soltanto una finta sinistra rappresentata in Parlamento. Sono vent’anni che la sinistra gioca al meno peggio, rovinandosi e rovinando i lavoratori... Ma, insomma, ha contato di più avere due-tre ministri in uno dei governi Prodi o il grande Pci che dall’opposizione sapeva condizionare le scelte del potere Dc?».
Manca la politica, mancano idee.
«Di sicuro mancano le idee. A me interessa di più salvare salari e pensioni che portare in Italia la salma di Lenin... Non si può lavorare da un’elezione all’altra solo per salvare la poltrona: così i partiti sono diventati oligarchie, in qualche caso monarchie, vedi il Prc di Bertinotti».
Nessuno si dimette più: non a caso nel centrosinistra gli stessi dirigenti muovono i fili da vent’anni, e sono gli stessi personaggi, già dirigenti del Pci o della Dc.
«Certo, continuano a determinare le scelte... E se scelgono una nuova dirigenza di facciata, un minuto dopo lavorano per indebolirla».
Perché capita, secondo lei?
«Credo che siamo di fronte a una mutazione genetica della passione politica, diventata un vero e proprio mestiere. Le battaglie nei comitati centrali non si differenziano per nulla dalle battaglie all’interno dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende».
Significa che ci sono interessi concreti, economici, che girano attorno alla leadership di un partito, anche piccolo, anche comunista?
«La sinistra s’è ammalata di una malattia mortale, una brutta bestia. Diciamocela tutta: il fatto che tu sia un assessore regionale o che sieda a Montecitorio, ti cambia davvero la vita. L’ha cambiata a me, che sono figlio d’operaio, l’ha cambiata a tanti. Rinunciare è difficile».
Appunto, non è stato contagiato anche lei?
«Non a caso da tre tornate elettorali non mi candido più».
Com’è potuto rimanere immune?
«Non ho la presunzione di avere ricette per tutti. Se io non ho la smania del posto lo devo alla fortuna di essere nato nella grande dignità di una classe operaia orgogliosa di se stessa, figlio unico di mamma casalinga, un papà operaio, un alloggio pulito e ben tenuto. Credo che sia importante ricordare da dove si sia partiti. Quando lo si fa, si è invincibili per tutti quelli colpiti dal virus».
Il discorso si fa delicato: anche il suo segretario, Oliviero Diliberto, continua a perdere ma rimane al suo posto. Contagiato anche lui dal virus?
«Che cosa vuole che le dica».
Mi spieghi almeno chi glielo fa fare, secondo lei.
«So soltanto che le sue dimissioni, dopo l’ultima sconfitta, sono durate il tempo che va dall’inizio alla fine di una riunione. Ritirate sotto l’onda dell’entusiasmo dei dirigenti del mio partito... E io, che non le avevo per nulla sollecitate, sono rimasto il solo a chiedere che almeno la discussione sull’insuccesso fosse più approfondita».
Ci sarà un motivo, per il quale uno resta attaccato alla poltrona con tanto accanimento. In un piccolo partito di comunisti, poi... Ma quanto avrebbe avuto il Pdci, se avesse superato la soglia di sbarramento assieme a Rifondazione?
«Per noi sarebbe stato vitale, visto che il partito si è totalmente dissanguato per la pubblicità, in questa campagna elettorale...».


Non si fatica a crederlo, considerato che c’erano manifesti in ogni dove e pagine su quotidiani e magazine... Il bel faccione di Diliberto persino su «Donna moderna». Sia sincero, quanto sarebbe entrato?
«Credo intorno ai 7-8 milioni di euro, sui 16 milioni spettanti al cartello elettorale. Mica bruscolini».

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