Caso D’Elia, nessuna riabilitazione «Noi non ti abbiamo mai perdonato»

La vedova dell’agente ucciso da Prima Linea aveva detto no alla richiesta di condono della pena. Ma i giudici non ne hanno tenuto conto

Stefano Zurlo

da Milano

Tre lettere. Tre missive assai imbarazzanti con cui Mariella Dionisi chiude la porta in faccia a Sergio D’Elia e grida il proprio dolore: «Abbiamo chiesto giustizia e non l’abbiamo ancora ottenuta». Questi documenti, datati 20 giugno 2000, sono contenuti nelle carte del procedimento con cui D’Elia, oggi deputato della Rosa nel Pugno e segretario d’aula alla Camera, ha ottenuto la riabilitazione. È stata questa la tappa decisiva, il passaporto per recuperare i diritti civili ed entrare in Parlamento. Nelle polemiche delle settimane scorse non era però emerso un dettaglio importante: sei anni fa la vedova dell’agente Fausto Dionisi, ucciso al carcere delle Murate nel 1978 dal gruppo fiorentino di Prima Linea guidato da D’Elia, aveva risposto per le rime alle raccomandate con cui il Tribunale di sorveglianza di Roma, il ministero dell’Interno e i difensori di D’Elia cercavano di sondare con cautela la sua posizione sul caso dell’ex terrorista.
«Rileviamo - scrivono insieme la signora Dionisi e la figlia Jessica - il tono formale, per niente partecipativo, anzi perfino distaccato con cui descrive il suo operato. Spiace così di dover constatare che sicuramente lei non ha compreso appieno la portata delle sue scelte di lotta armata, in quanto neppure si riferisce alla figlia di Fausto Dionisi e neppure prova umana pietà nei confronti di una bambina di due anni che diventa donna senza un padre, di una ragazza che è costretta a misurarsi con la non considerazione dei suoi bisogni morali». Jessica, classe 1976, è cresciuta infatti senza conoscere il padre che ha incontrato solo in fotografia e nei racconti della mamma. «Pur apprezzando - prosegue la risposta - il suo impegno nell’associazione Nessuno tocchi Caino riteniamo quindi che anche il nostro Abele debba essere tutelato».
Di qui il «no» scandito dalle due donne a quella che nella lettera viene chiamata «la liberatoria». Di che si tratta? «Il Tribunale di sorveglianza voleva sapere, com’è normale in vista della riabilitazione - spiega l’avvocato Giuseppe Cardillo, legale della signora Dionisi - se D’Elia avesse risarcito i danni provocati. Mariella D’Elia non ha mai visto una lira e dunque il suo “no” era scontato. A suo tempo peraltro la signora aveva pure rinunciato a citare in sede civile gli assassini del marito perché non voleva in alcun modo misurare a colpi di milioni il proprio dolore e la propria tragedia».
Mariella e Jessica Dionisi negano dunque la «liberatoria»: «Pertanto la nostra risposta non può che essere negativa. Abbiamo chiesto giustizia e non l’abbiamo ancora ottenuta, abbiamo chiesto verità e non la sappiamo ancora. Abbiamo la convinzione che questo lo dobbiamo pretendere da lei e da quelli come lei. La pena che lei e i suoi compagni hanno inflitto a lui e a tutti gli altri caduti e ai loro familiari è realmente una pena che non può essere scontata, che non può essere condonata, che non può essere rivisitata».
Il «no» della signora Dionisi non ha però fermato la pratica. La riabilitazione è arrivata lo stesso: «Chi ha commesso il reato - prosegue Cardillo - deve risarcire la vittima a meno che dimostri di non essere in condizione di farlo. E molti dichiarano di non avere i soldi». Risultato? «I giudici danno ugualmente l’ok». Com’è successo a D’Elia.


«Ho pagato con 12 anni di carcere il conto che lo Stato e la legge italiana mi hanno presentato - ha scritto lui a Fausto Bertinotti - e nel 2000 sono stato completamente riabilitato con sentenza del tribunale di Roma».
Mariella Dionisi, invece, quando ha scoperto che D’Elia era diventato segretario della Camera, si è messa a piangere: «C’era voluto tanto tempo per ritrovare un minimo di equilibrio. Mi sento umiliata».

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