Cento guerriglieri dei Comitati di resistenza popolare assaltano nella notte la casa bunker dell’ex responsabile dell’intelligence militare palestinese Resa dei conti a Gaza, ucciso il cugino di Arafat Crivellato di colpi e trascinato sull’asfalto dava

Era uno dei più corrotti e detestati esponenti della nomenklatura

Gian Micalessin

A Gaza nessuno probabilmente piangerà per lui. Era il più detestato, l'emblema della corruzione e l'incarnazione del nepotismo. Ma la sua uccisione e la sua barbara eliminazione rischiano di diventare il simbolo di una Gaza senza legge e senza pietà. Moussa Arafat, il cugino 65enne del defunto Yasser, era da sempre la controfigura sbiadita dell'illustre zio. Forte con i deboli, debole con i potenti, l'astuto, ma non intelligente, Moussa aveva occupato per inerzia il vertice dell'intelligence militare sin dal rientro da Tunisi al fianco dello zietto. Dopo la morte del suo grande protettore, s'era convinto che arsenali e guardie del corpo, uniti a un considerevole patrimonio, frutto di pizzi e tasse di protezione, potessero preservarlo in eterno. Cento uomini mascherati hanno messo fine, l’altra notte, a quell'ultima illusione. E alla sua vita.
L'attacco inizia prima dell'alba quando un centinaio di miliziani dei Comitati di resistenza popolare circondano il palazzo dove Moussa Arafat vive praticamente barricato. Le sue guardie del corpo - pronte al peggio da mesi - non lo abbandonano. Si spara da fuori, si risponde dall'interno. E neppure per un attimo si pensa a una trattativa. Quei cento guerriglieri in nero non sono arrivati per discutere, ma per uccidere.
Coperti dal fuoco dei kalashnikov i miliziani dei Comitati s'avvicinano all'edificio di quattro piani, vi aprono brecce profonde a colpi di razzi anticarro. Si combatte per trenta, quaranta minuti, ma dalla vicina sede della Sicurezza preventiva, due isolati più in là, non esce neppure un vigile urbano. Gaza e le sue autorità civili e militari guardano e attendono. Finisce quando le guardie del corpo decidono di arrendersi. Allora tra le scale e le rovine del palazzo precipita un uomo in pigiama. Moussa il potente, l'uomo che faceva tremare Gaza, è un fantasma pallido e tremante. Non ha neppure il tempo d'implorare pietà. Viene sbattuto nella polvere, regalato ai kalashnikov. Sparano uno alla volta e ognuno gl'infila nelle carni una razione di piombo. Alla fine da quell'ammasso sanguinolento salteranno fuori 23 proiettili. Il rito non è finito. Il cadavere viene trascinato nella polvere davanti agli occhi della famiglia e del figlio Manhal. «Abbiamo eseguito la legge di Dio», declama uno dei miliziani. Gli altri afferrano Manhal lo caricano su una jeep. Poi se ne vanno in fila, tranquilli come dopo una processione.
Loro, gli assassini, sono gli uomini dei Comitati popolari di resistenza, una sinistra confraternita messa insieme, quattro anni fa, da militanti delle Brigate Martiri di al Aqsa e da fuoriusciti di Hamas e Jihad islamica. Privi di scrupoli e spesso imprecisi hanno nel loro carnet di morte anche l'uccisione di tre uomini dei servizi di sicurezza americani fatti saltare con una mina artigianale, nell'ottobre 2003, nella zona del campo profughi di Jabalya.
Ma ieri - dopo aver messo a ferro e fuoco il cuore di Gaza city e ucciso un uomo che, seppur finito ricopriva ancora la carica di consigliere presidenziale, si sono presi il lusso di convocare una conferenza stampa e giustificare la mattanza. «Moussa Arafat era responsabile d'innumerevoli uccisioni furti e ricatti - ha spiegato il portavoce Abdel Al - ora stiamo interrogando e decidendo il destino di suo figlio Manhal». Così mentre la sorte del figlio Manhal resta incerta (secondo molte voci sarebbe già stato ucciso) l'Autorità nazionale palestinese cerca di superare l'imbarazzo per l'eliminazione di un funzionario ucciso da uno di quei gruppi armati che Mahmoud Abbas (Abu Mazen)continua a non disarmare.
Quell'eccidio - alla vigilia del passaggio delle ex colonie israeliane sotto controllo palestinese - rischia di confermare le tesi di quanti profetizzano una Gaza nelle mani del terrore e delle bande armate. Di certo Mahmoud Abbas dovrà spiegare come mai gli uomini delle forze di sicurezza non siano intervenute. Dovrà far capire come mai nessuno all'interno dell'intelligence palestinese sia riuscito a prevenire un'operazione messa a segno da militanti provenienti dall'interno della stessa Fatah.
Certo Moussa Arafat era un morto che cammina. Avevano cominciato a bersagliare la sua casa nell'agosto del 2001 e ci avevano riprovato due anni fa. Lui convinto di poter resistere non s'era rassegnato neppure dopo la morte di Arafat, quando aveva preteso di continuare a guidare le forze di sicurezza. Era stato destituito solo all'inizio dell'anno quando Mahmoud Abbas l'aveva promosso al rango di consigliere.

Ma ora il presidente palestinese potrebbe dover spiegare come mai né lui, né il suo ministro degli interni, Nasr Youssef, né il primo ministro Abu Ala, si siano ancora preoccupati di metter sotto controllo i miliziani dei Comitati di resistenza popolare e le altre bande armate di Gaza.

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