da Milano
«Non c’è dubbio, il vento è cambiato». Alberto Clò, professore di Economia industriale all’università di Bologna e direttore della rivista Energia, nonché ex ministro dell’Industria nel governo Dini, vent’anni fa sostenne le ragioni del nucleare nella campagna referendaria: «Ero uno dei pochi, la scienza fu delegittimata e circondata da un silenzio assordante. Tanti di quelli che favorirono quella scelta scellerata sono i pierini che oggi riscoprono il nucleare. Ma non ammettono di aver causato un disastro».
Lei non è tra quelli che hanno cambiato idea.
«Io penso che il mondo - tanto per fare una dichiarazione di fede - non possa fare a meno del nucleare. È l’unica soluzione oggettiva al problema delle emissioni di anidride carbonica».
Che cosa pensa dello spostamento dell’opinione pubblica in senso favorevole al nucleare?
«Non è un fenomeno solo italiano. Ed è riconducibile a una duplice frustrazione: da un lato per l’esplosione dei costi energetici, dall’altro per i black out, cose che non accadevano nemmeno durante la guerra».
Pensa che sia una svolta decisiva?
«Indubbiamente il vento è cambiato. Ma non so se questa maturata consapevolezza si tradurrà in effettiva disponibilità ad accettare il nucleare».
Perché dubita?
«Dubito dei politici faciloni. Il nucleare non è una porta girevole di un grande albergo, dove si entra e si esce quando si vuole».
Eppure a destra e a sinistra crescono i sostenitori del nucleare.
«La fanno facile, non conoscono il problema. Nasano il vento e, come vent’anni fa, lo cavalcano a scopi elettorali».
È un problema solo italiano?
«In tutto il mondo occidentale c’è un’impasse. Il nucleare era una speranza all’inizio degli anni ’50 ed ebbe un grande sviluppo, che però si è esaurito».
Come mai c’è questo blocco?
«Il primo problema è il consenso che è mancato dopo la tragedia di Chernobyl. Il secondo è economico: la produzione di energia nucleare non regge a un sistema concorrenziale. Il costo d’investimento è elevatissimo: una centrale costa 3-4 miliardi di euro. Nessun privato è disposto ad accollarselo, senza aiuti di Stato. Non a caso oggi le centrali si costruiscono quasi solo in Paesi a basso tasso democratico».
Significa che il nucleare funziona solo con le dittature?
«La Francia è un’eccezione. Nel ’73 Chirac presentò in sei mesi un piano per costruire 55 centrali. Fu approvato all’unanimità. E non tanto per ragioni economiche, quanto per difendere la sovranità francese attraverso l’autonomia energetica».
Un modello che per l’Italia sembra improponibile.
«Per l’Italia ho proposto quello finlandese, dove un consorzio di privati grandi consumatori di energia sta costruendo una centrale impegnandosi a consumare per decenni tutta l’energia nucleare prodotta».
Ma se l’immagina in Italia, dove regna il principio «non nel mio giardino»?
«E allora teniamoci la benzina a 1,40 euro al litro».
È troppo tardi per l’Italia?
«Siamo stati un Paese all’avanguardia: negli anni ’60, con pochi mezzi, avevamo tre centrali. Il referendum è stato un disastro: non solo miliardi di euro buttati al vento, ma una competenza scientifica e industriale azzerata. Per ricostruirla serve una generazione».
Da dove bisogna iniziare?
«Dal fatto che da soli non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo associarci con altri Paesi europei. I politici la fanno facile. Per dirla con Totò, nell’87 erano contrari «a prescindere», oggi sono favorevoli «a prescindere».
Dei politici convertiti al nucleare proprio non si fida.
«Ma se non riescono a fare una discarica!».
Se per questo, non riescono nemmeno a smaltire le scorie di trent’anni fa. A che punto siamo?
«A un “non punto”. In Italia la democrazia è bella, ma anche tanto irritante».
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