Ci vorrebbe un Riccomini per ogni città italiana

Il suo libro «L'arte a Bologna», di alto valore tecnico e letterario, è il modello per tutti i critici

Ci vorrebbe un Riccomini per ogni città italiana

Non so quanti abbiano la percezione, e la compiuta esperienza, che ha la mia generazione (e quella che la precede, ormai in via d'estinzione) del valore e della qualità critica (e letteraria ed evocativa) di Eugenio Riccomini. Chi era costui? diranno molti giovani per i quali lo «storico dell'arte» è nato quando mi hanno visto in televisione parlare degli «esotici» Piero della Francesca, Caravaggio, Raffaello, Morandi o Ligabue (altri dagli omonimi cantanti padani).

Un mondo sconosciuto, improvvisamente riemerso, come fosse archeologia. Intorno alla quale, greca, romana o egizia, si muovono milioni di persone per vedere rinascere città morte. E invece, nelle nostre città vive, infinite meraviglie sono nelle chiese, nei musei (pensate al mirabile Davia Bargellini di Bologna) e nei palazzi, a portata di mano, a un passo da noi, dai nostri permeabili corpi, spesso ignorate come se non esistessero. E la lenta percezione di questo patrimonio, convivente con la nostra esistenza, è assai recente. Non sono entrate nelle chiese d'Italia, se non per funzioni religiose e funerali (a Bologna commovente l'altro, del secondo Eugenio, Busmanti, amatissimo dal primo), intere generazioni, fino a quella dei miei genitori. E tuttora la gran parte della popolazione italiana diserta quei luoghi sublimi. Dopo i grandi viaggiatori del '700 e dell'800, soltanto nel secolo scorso, quello in cui Riccomini e io siamo nati, questa pratica è stata consumata: nella penombra delle cappelle si sono appuntati gli occhi di Roberto Longhi, di Federico Zeri, di Giuseppe Fiocco, Francesco Arcangeli, Francis Haskell, Anthony Blunt, forse devoti, ma certamente accesi di una diversa fede, una fede irriducibile nelle opere d'arte. Loro sono stati maestri, noi pellegrini; e tutti insieme abbiamo visto apparire sconfinate meraviglie nei musei e nelle chiese, disertati e negletti beni comuni. È come pensare a un miracolo il giorno (era il 1978) in cui Carlo Volpe, entrando nella chiesa di San Martino a Bologna, vide su una parete una celeste apparizione: la riemersa (per lavori idraulici) Natività di Paolo Uccello con i pastori che guardano estasiati la luna, nella stessa infinita notte del canto di Leopardi. Questo paradiso, nel senso letterale e simbolico, che vive intorno a noi si manifesta di città in città, di borgo in borgo e, in Italia, con una frequenza imparagonabile.

Tanti di noi, storici dell'arte, hanno fatto questi percorsi, hanno perlustrato sagrestie e archivi, ma spesso con uno spirito penitenziale, forse vergognandosi del piacere che ne traevano. E qui voglio parlarvi di Riccomini perché lui, invece, l'ha fatto con passo lieve e spirito euforico, senza vergogna. Il suo, più che un passo, è stato un volo, una danza. E non soltanto nella nostra penisola infinita, percorsa e ripercorsa, ma anche in Grecia, Egitto, Armenia, Giordania, Marocco, India, Siria, Turchia, dove l'hanno portato i suoi desideri. Insomma, A spasso per il mondo, con gli amici, un taccuino e una penna, viaggi remoti (e non sempre esotici) per intendere la vastità del mondo, ma tanto più lontano per intendere la grandezza e l'infinità della sua Bologna (proprio come il secondo Eugenio, Busmanti). Piccolo il libro degli schizzi di viaggio nei vari continenti, grande il volume L'arte a Bologna edito da Pendragon (stampatore personale, di famiglia, e familiare) nel 2011. Per ogni città ci vorrebbe un libro come questo, che esiste, in un passato più curioso e stimolante, per pochi fortunati (e penso, fra tutti, a Marco Boschini con il suo «navegar pitoresco» per cercare le «miniere della pittura»), in guide puntuali e suggestive illustrate con incisioni, come il Forestiere illuminato di Giovanni Battista Albrizzi. Certo, in tempi moderni, soprattutto a partire dagli anni '60, sono uscite molte guide di città. Ma guide, appunto, lungo itinerari privilegiati, o anche integrali (come pretendono le «Guide rosse» del Touring). Ma forse nessuna città, neanche Firenze o Venezia, hanno un libro così argomentato, in molti punti polemico, e in molti poetico, come quello di Riccomini.

Viaggiatore erudito, appassionato, e di animo felice come nessuno, ha inteso l'arte come seduzione e come strumento di seduzione. Con lo stesso spirito del suo coetaneo Alain Delon, il professore illustra la Madonna del parto di Piero della Francesca a Sonia Petrova, Vanina, l'allieva, rivelandole il suo pensiero amoroso nel viaggio disperato verso La prima notte di quiete, il grande film di Valerio Zurlini. Ciò che spiega il miracolo di Riccomini è il suo spirito settecentesco, così come si rappresenta nell'Indifferente di Watteau. Certamente, nella storia dell'arte è il Settecento il secolo a lui più congeniale che l'attraversa tutto come un «vagante corriero». In verità, a Riccomini, studioso eclettico e libero, ogni momento della storia dell'arte, soprattutto tra Bologna e Ferrara, è noto ed è caro. Ma il Settecento ha quella «vaghezza e furore» che corrispondono al suo temperamento, ed egli ce ne ha rivelato alcuni aspetti sconosciuti.

È bello leggere Riccomini quando parla di Creti, artista sconfinato e sconosciuto, o di Francesco Monti, che non teme il confronto con il Tiepolo, o di Giuseppe Maria Crespi, il Caravaggio bolognese, non Spagnoletto (come Ribera), ma Spagnolo, e non di origine, lui bolognese, ma di spirito e di gusto, come si rivela nei Sette sacramenti, oggi a Dresda, o nei mirabili scaffali (dipinti) di libri (dipinti) che furono a lungo celati nel Conservatorio Martini, altra tappa segreta di un viaggio nella felicità della nostra giovinezza (non perduta). È bello leggere Riccomini anche quando scrive di sapidi minori, come Ercole Graziani, Giuseppe Gambarini, o del figlio del Crespi, Luigi, col suo elegante ritratto di Ferdinando Gini, sublime dandy. Riccomini scrive: «Vaghezza, ecco, è un termine che ricorre di frequente (mentre altri scompaiono: quello di naturalezza, ad esempio; e non a caso), e pare assai adatto ad indicare le aspirazioni degli artisti che furono protagonisti del nostro barocchetto». È bello leggere Riccomini perfino quando parla del Piò, Angelo Gabriello, stuccatore di travolgente eleganza, come si vede nel vistoso stucco nella chiesa di San Domenico. Ma è bello leggerlo anche quando racconta l'evanescenza e i fantasmi dell'ultimo Guido Reni, la sensualità di Guercino, i brividi di un pittore sanguigno come Giovanni Antonio Burrini, «la cui pittura si fa sempre più destrezza personale, e sogno di luoghi incantati», come vediamo nella Erminia fra i pastori; o quando parla dell'algido Marcantonio Franceschini, «la cui arte è fatta di magistrale controllo e di conduzione senza errori e sbadataggini» (a chi allude?).

Riccomini è oltretutto un ottimo conoscitore. Il suo occhio è infallibile e sempre esercitato, così come la sua prosa è vibrante, veloce e asciutta. Riccomini ha amato, più di ogni altro, il patriarca dei Soprintendenti (e lui stesso lo fu, dopo aver diretto la Pinacoteca nazionale di Ferrara, a Parma, partecipando con il corpo all'estasi delle cupole di Correggio): Cesare Gnudi (come un padre) che aprì la stagione delle grandi mostre dei pittori bolognesi che furoreggiarono a partire dagli anni '60, culminando nell'autobiografia di Francesco Arcangeli, Natura ed espressione nell'arte bolognese ed emiliana, da Wiligelmo a Morandi. Ed è Gnudi a fargli compiere il solo errore in questo racconto meraviglioso: la data del San Domenico di Nicolò dell'Arca, che io trovai e riconobbi, come per un miracolo, nel 1984. Intelligente com'è, e lusinghiero per convinzione, dice quella terracotta «di stupefacente qualità» (ricordo che, quando fu assessore a Bologna, me la chiese per annoverarla fra gli ospiti del Museo civico medievale in Palazzo Ghisilardi). Nessun dubbio che, nella sua astratta perfezione, il mio San Domenico cada nel 1474, ancora nella fascinazione assoluta di Piero della Francesca, e non nel 1493, l'anno dopo la morte di Piero, che conviene al più morbido e conciliante San Domenico conservato nel convento del santo. Ma nessuno meglio di Riccomini ha saputo cogliere il senso profondo della rivoluzione ferrarese nel Rinascimento bolognese, commentando la meravigliosa Annunciazione di Francesco del Cossa, proveniente dalla Chiesa dell'Osservanza e venduta dal solito figlio del Crespi, Luigi, all'Elettore di Sassonia, Federico Augusto, per la galleria di Dresda. Riccomini scrive: «La paletta dell'Osservanza è, infatti, un dipinto di invenzione calma geniale, e di conduzione sottilissima, come mai si era visto a Bologna».

Sarà felice il sempre giovane Riccomini, all'alba dei suoi 80 anni, a Ferrara e a Bologna, tra Palazzo Schifanoia (che riaprirà al pubblico il 12 marzo proprio con la mostra Schifanoia e Francesco del Cossa. L'oro degli Estensi) e il ricomposto polittico Griffoni, di veder risorgere il grande Francesco del Cossa. Grazie anche al suo amore.

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