Cisgiordania, viaggio nelle colonie ebree dove la vita è «congelata»

Il mondo chiede di sospendere la crescita interna degli insediamenti ma la realtà è che lo sviluppo di molte comunità è bloccato da anni. Il sindaco di Efrat: «Tutto è fermo dal tempo della Road Map»

Cisgiordania, viaggio nelle colonie ebree dove la vita è «congelata»

Quei diavoli negli insediamenti. Anzi: quei diavoli di «coloni», con la parola che implica truci memorie di sfruttamento e imperialismo. Tutto il mondo ne parla in questi giorni, e lo ha fatto anche il G8, per chiedere il «congelamento» della loro presenza in Cisgiordania. E l’idea viene dal presidente Obama in persona. I coloni nell’immaginazione popolare hanno il fucile sempre in mano, devastano gli ulivi palestinesi, sono fanatici religiosi, producono figli come conigli così da rendere la loro «crescita naturale» un’arma devastante.
Ma chi è in realtà un colono? Siamo andati in giro a dare un’occhiata. Intanto, è una figura minuscola sullo sfondo dei conflitti mediorientali, il suo giganteggiare politico odierno ha ben poco a che fare con una jihad che dagli anni Venti proibisce agli arabi di considerare Israele come uno Stato definitivamente atterrato nella Umma islamica. Israele, agli occhi di molti fedeli dell’Islam, è un grande insediamento. In secondo luogo, anche se ora il delegato americano Mitchell e Netanyahu stanno forse per presentare una sospensione di sei mesi nella crescita interna degli insediamenti, molti villaggi e comunità sono già bloccati da anni. Oded Revivi, il sindaco di Efrat, fiorente insediamento del Gush Etzion, è netto: «Da noi, quando i giovani decidono di sposarsi sanno che è il tempo di fare la valigia. Tutto è fermo dal tempo della Road Map. Siamo già strangolati. I prezzi sono come nel centro di Tel Aviv».
Congelati: questo è ciò che già sono tutti gli insediamenti fuorché tre. La popolazione di 21 insediamenti della Cisgiordania nel 2007 è rimasta statica o è declinata, 74 sono cresciuti di 100 persone o meno, e solo Modi’in Illit, Betar Illit e Ma’ale Adumin, tre comunità dentro i confini della barriera di difesa - che sarebbe facile lasciare in pace con un accordo di scambio territoriale, se i palestinesi fossero interessati alla pace - rappresentano il 57 per cento della crescita naturale raggiungendo, in totale, i 110mila abitanti su un insieme di 286mila in Cisgiordania. Insomma, se invece di schiamazzare «congela il settler» ci si concentrasse su tre insediamenti per stabilire se quelli sono intoccabili e in cambio di che cosa, mentre gli altri sono cedibili, ovvero si tenessero colloqui di pace invece che perorazioni, sarebbe molto più utile a tutti.
I settler sono in molti casi persone normali ma molto costanti e anche duri, che si considerano parte di un lavoro ancora in corso: Israele. Non sono convinti, come dice Leiter «che qui, in Giudea, io debba lasciare spazio a un nuovo piccolo Stato autoritario e islamico, forse iraniano come Hamas». Fra loro c’è gente che voleva case a buon prezzo. Ma anche estremisti pericolosi; in genere sono idealisti che considerano per motivi storici e di difesa la terra della Giudea e della Samaria, dal ’48 al ’67 occupata dalla Giordania, indispensabile. I governi israeliani che si sono succeduti negli anni hanno oscillato, generando grande confusione, fra il considerare quelle terre come moneta di scambio per raggiungere la pace coi palestinesi o, invece, terra liberata che poteva conferire al piccolo Israele sicurezza e protezione insieme alle memorie storiche.
A molti non importa della Bibbia, ma certo bisogna ammettere che è una bella pezza d’appoggio quando cita l’indirizzo di casa tua. Netayahu non ha spiegato, anche se qualche insediamento è irrinunciabile e altri invece no, quali scelte intende fare. I settler hanno, quasi tutti, le ragioni di gente che ha costruito la casa con le mani nude e rischia la vita ogni volta che torna a casa la sera. E che quando a Gaza fu deciso lo sgombero obbedirono nella tragedia.
Lo stereotipo dei settler sono giovani teenager che prendono una tenda e un caravan e si piazzano su una cima, perché là c’è un ricordo storico. Come loro, anche il più buono, per esempio l’olicoltore Yair Hirsch di Achya, pensa che i palestinesi non si placherebbero se riuscissero a cacciarlo dalla sua casa, combatterebbero, dice, per Tel Aviv; lui, un tipo pacifico, sa che paga duro per la sua scelta, antipatia politica, vita di pericolo, spesso penuria e solitudine. Al 98% il settler non c’entra niente con lo stereotipo che lo ha reso una figura da smantellare, sembrerebbe oggi, più della bomba atomica iraniana.
Mitchell sa che gli insediamenti non sono illegali; molti outpost, invece, fuori dei confini delle comunità, sì, e il governo intende smantellarne subito 22. Ce ne sono in tutta la Cisgiordania; per esempio nella zona di Kiriat Arba, attaccata a Hebron, dove vivono i più aggressivi, dove Elyakim Haezni, un leader fra i più duri, ci domanda, e non è religioso, perché mai dovrebbe pensare ad andarsene, perché gli ebrei non dovrebbero vivere presso la grotta di Machpelà, presso il grande sepolcro erodiano di Abramo e Sara. Perché? Solo perché ci è stata costruita sopra una moschea? E cos’è questa idea incontestata di un mondo arabo pulito dagli ebrei mentre in Israele vivono da liberi cittadini un milione e 400mila arabi israeliani? Cosa dice Amnesty, chiede Haezni ironico. Ma se un futuro Stato palestinese fosse pronto a accoglierlo come cittadino? Innanzitutto non potrebbe mai vivere sotto una dittatura, dice. In secondo luogo, e cita Hobbes: «La vita sarebbe sgradevole, brutale, e breve. Soprattutto breve».
Kiriat Arba è considerata dallo stesso movimento dei coloni un caso limite, spirale di sangue e violenza. Ma fra i settler c’è di tutto, religiosi e non religiosi, ideologi e gente semplice, austeri e fricchettoni. Oded Revivi, avvocato, sindaco di Efrat, voleva una bella casa in vista di Gerusalemme senza spendere troppo, e oggi si pregia della convivenza stabilita con gli arabi che vivono e lavorano i loro ulivi dentro l’insediamento stesso. Ma anche lui mi mostra da lontano la capitale e dice che senza difenderla con questo breve spazio di terra, gli attentati si moltiplicherebbero, i missili pioverebbero come da Gaza su Sderot. Dall’altra parte di Gerusalemme, saliamo sul cocuzzolo di Kida nella valle di Shilo per incontrare la giovane Tzofia Dorot, abbronzata e attiva madre di due bimbi; il marito ufficiale è lontano, pochi vicini vivono come lei in roulotte pulite e curate; Tzofia è appena riuscita a istituire il giardino d’infanzia, si occupa di fisioterapia. Ma la ventosa Kida può sparire dato che sarebbe nella lista dei 22 avamposti. Come reazione, Tzofia ha ricevuto proprio oggi un architetto di Tel Aviv, è un posto magnifico per il turismo, le ha detto, quelle tre roulotte sono già camere in cui si viene nel weekend per godere la natura. Poco lontano, un altro avamposto, Givat Arel che Daniel Bin Nun ha costruito con le sue mani in memoria di Arel, un suo fratello ucciso; anche suo padre è stato ucciso. L’aria buona non è gratis. L’avamposto contiene un maneggio ippico terapeutico, dove Daniel cura 100 bambini provenienti da tutta Israele.
Yehiel Leiter spiega un altro punto fondamentale delle sue ragioni: la sicurezza. «Per Israele la continuità territoriale è tutto. Per esempio, abitare la valle di Shilo anche da ovest ad est, cioè, grosso modo, dalla costa verso la Giordania è per Israele l’unico modo di restare in contatto con la Valle del Giordano. Chi ha attraversato tutte le guerre e tutti i rifiuti palestinesi dal ’48 al rifiuto recentissimo di Abu Mazen nei confronti di Olmert, non desidera piacere all’opinione pubblica internazionale, ma difendere il Paese. Dietro la Giordania ci sono l’Irak, la Siria e poi l’Iran». Insomma, Dice Yehiel, non scherziamo, anche gli americani sanno che senza spazio territoriale sei a grande rischio. Non basterà la promessa di Bibi di uno Stato palestinese demilitarizzato, perché non c’è garanzia che esso possa restare tale negli anni.
Storia, difesa territoriale e alla fine senso di identità a chi non piace non piacerà per quante spiegazioni si possano dare, dice Shaul Goldstein, capo della organizzazione di zona del Gush Katif. «Vede - ci tiene a aggiungere - Sharon disse a Bush che avrebbe sgomberato Gaza se gli avesse promesso uno scambio di terra per alcuni insediamenti irrinunciabili. Ciò che Bush fece con una lettera.

Forza, dica chiaro Bibi quali sono. E il mondo dica una volta per tutte: la storia è importante? Il retaggio è importante? Perché se non lo è, cambiamo tutto, rivediamo il concetto di nazione per tutti i popoli del mondo, non solo per noi».

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