La clemenza di Mastella: liberi 12mila detenuti

Massimiliano Scafi

da Roma

Dodicimila scarcerati. Questa è la clemenza di Clemente, questa è, per il ministro della Giustizia, la misura da prendere, la mossa necessaria, la valvola da aprire prima che scoppi tutto. Troppa folla dietro le sbarre: colpa, secondo Mastella, pure di alcune leggi del centrodestra. D’altronde, spiega, i numeri sono numeri: i detenuti sono 61.353, i posti in galera 45.490 «e adesso che arriva l’estate io sono molto preoccupato». Serve quindi un gesto di «saggezza», «un provvedimento deflattivo». Con un indulto fino a due anni, dice, sarebbero in 10.481 a lasciare le prigioni. Con un indulto fino a tre, 12.756. E con un’amnistia sarebbero un 20 per cento in più.
Due ore, 47 pagine. Certo, nella sua audizione-fiume in Senato, il guardasigilli si dice «ben consapevole» che aprire le celle non basta, che un intervento del genere «deve abbinarsi a misure di sistema», vale a dire delle norme «per assicurare la ragionevole durata dei processi». E sa «benissimo» Mastella che la scelta non spetta a lui ma alle Camere: «Non ho mai pensato a gesti solitari fuori dalla logica del legislatore. La mia invocazione a fare qualcosa va intesa come stimolo alle forze politiche e viene non solo dalla situazione drammatica delle carceri, ma anche da tante sollecitazioni parlamentari». Del resto, insiste, gli istituti di pena «hanno raggiunto il livello di guardia e con il sovraffollamento diventa difficile assicurare condizioni di vita dignitose ai detenuti». Un provvedimento di clemenza può invece «consentire da subito di salvaguardare i diritti fondamentali dei reclusi e degli agenti di polizia penitenziaria». E anche di alleggerire il lavoro degli uffici giudiziari.
È dal 1990 che l’Italia non apre le sbarre. All’epoca uscirono dodicimila detenuti, diecimila per indulto e duemila per amnistia. Ora, dice ancora il ministro, siamo tornati allo stesso punto. Colpa, sostiene, anche di alcune leggi della Cdl «che coinvolgono soggetti di spessore delinquenziale non allarmante provenienti dall’area del disagio sociale e della povertà». Soprattutto della Bossi-Fini sull’immigrazione, che solo nel 2005 ha visto entrare in carcere 13mila persone: «Per 11.519 di loro è stata contestata la violazione dell’espulsione, quasi sempre come unico reato».
A Mastella non piace nemmeno la riforma Castelli, «di impronta burocratica da ancient regime» e vuole rivedere i concorsi di accesso, i test psicoattitudinali e lo sviluppo della carriera: non più esami interni, ma controlli periodici. Quanto alla divisione dei ruoli tra magistratura inquirente e giudicante, per il ministro un pm può diventare giudice, ma per quattro anni deve cambiare distretto. Altro problema serio, le intercettazioni. Sono «essenziali ai fini processuali» però rischiano di diventare «una clava per la lotta politica». Un ritocco normativo perciò «è improrogabile, i modi li scelga il Parlamento». Lui propone «adeguate sanzioni pecuniarie» per i giornali che pubblicano illegalmente i verbali e l’attuazione del codice per la privacy.
E poi, i fondi: «Solo per il 2006 al ministero serviranno 280 milioni di euro. Dovremo risparmiare, ho già fatto tagliare le mazzette dei giornali ai sottosegretari». Infine, gli avvocati in rivolta. In mattinata Mastella partecipa a una turbolenta assemblea dei penalisti in sciopero, che gli chiedono di non sospendere la riforma sull’ordinamento giudiziario. «Non accetto diktat da voi nè da nessuno - risponde -, non mi faccio tirare la giacca. Io non sto nè con i giudici nè con gli avvocati, sto dalla parte dei cittadini. Non sono un ministro parziale, cerco solo di riportare un clima di serenità».

Da qui la necessità «di una moratoria, che serve per poter discutere e sospendere il giudizio: se si alzano totem, se prevale il conflitto permanente, chi ci rimette è la gente». Però, conclude, «bisogna prendere atto che c’è stato un cambio di maggioranza voluto dagli italiani e che non siamo tenuti a conservare tutto quello che ci viene dal passato».

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