Col padre di Hina siamo condannati anche noi

La storia di Hina Salem non è arrivata alla conclusione naturale, non almeno fino a che non sarà chiara la certezza della pena inflitta a suo padre e ai cognati che l’hanno attirata in trappola e sgozzata. In carcere ci devono restare. Non fino a che non sarà possibile scrivere sulla sua tomba la parola che lei desiderava, una condizione che pregustava come un sogno: italiana. Per questo desiderio è morta. La condanna a trent’anni degli assassini continua a restare secondo me non abbastanza dura, lo ha ammesso anche il procuratore che «tecnicamente si poteva chiedere di più», e il giudice aveva aiutato gli imputati accettando il rito abbreviato che prevede uno sconto di pena e che non dovrebbe essere applicato in casi infami come questo.
Addirittura lo zio di Hina, colpevole «solo» di averne gettato il corpo dalla finestra per poi aiutare gli altri a seppellirla nel giardino della villetta, è fuori, è in giro libero, perché lo hanno condannato a due anni e otto mesi. Eppure, ieri gli amici e i difensori di Hina Salem, le donne che pattugliavano il tribunale di Brescia, erano contenti, o sollevati, perché non speravano tanto in un Paese che rimette in circolazione senza farsi scrupoli clandestini aspiranti killer o terroristi.
Hina diceva «non voglio essere né musulmana né cristiana, voglio essere italiana», e forse senza saperlo formulava la sua dichiarazione di indipendenza, l'affermazione dell'individuo che persegue il suo scopo, anche quello della felicità. Per suo padre la stessa frase significava che sua figlia aveva scelto di vivere da puttana italiana, lavorando la sera, vestendosi come le altre, amando un cristiano italiano. Tanto schifo gli faceva la figlia divenuta italiana che aveva ritenuto di poterla violentare senza problemi e senza peccato. Lei, l'italiana, era riuscita a resistere e poi l'aveva denunciato alle autorità italiane, senza essere ricompensata della fiducia. Forse in quell'occasione Hina ha capito come vengono trattate le donne vittime di violenza in Italia, musulmane e no.
Eppure Hina voleva essere italiana. Il suo insegnante di scienze sociali all'Istituto professionale per operatori sociali la ricorda così: «Hina arrivò a scuola in ritardo rispetto all'inizio dell'anno scolastico, ma tutti rimanemmo colpiti dalla facilità con cui fin dall'inizio si inserì nella classe e dalla sua straordinaria capacità di sviluppare relazioni di amicizia con le compagne e con i docenti. Hina era vivace e attenta, ma soprattutto si mostrava molto autonoma nell'esprimere giudizi rispetto a quanto accadeva intorno a noi. Conosceva bene sia l'italiano che l'inglese, oltre alla lingua hurdu. Soprattutto scriveva molto bene, mostrando capacità introspettive non comuni rispetto alla sua età e in relazione ai codici culturali profondamente diversi rispetto alla propria origine. Ricordo con quanta passione affrontava gli argomenti di sociologia e psicologia, e le lunghe discussioni che facevamo in classe rispetto ai diversi sistemi culturali che lei aveva attraversato».
Hina voleva essere italiana e ce la stava mettendo tutta, compreso il coraggio di sfidare la famiglia, sapendo quel che rischiava. L'Italia che cosa ha fatto per lei? Il padre assassino era considerato un cittadino integrato, era proprietario di una casetta dignitosa a tre piani con giardino. Era in Italia da dieci anni e poco tempo fa aveva presentato domanda per ottenere la cittadinanza, non aveva precedenti penali, non creava problemi alla comunità, lavorava regolarmente in una fabbrica locale, pagava le tasse. Lo avremmo definito un moderato, invece era un pericoloso fanatico fondamentalista, un musulmano intriso della cultura di violenza, che governo, istituzioni, polizia, insomma le istituzioni, non sono state in grado di riconoscere né di fermare. Peggio, pochi mesi fa la Cassazione ha dato ragione a una famiglia di pakistani che tenevano la figlia incatenata perché «lo facevano per evitare che tentasse il suicidio», per il suo bene. E perché mai la ragazza, Fatima, avrebbe tentato il suicidio? Forse per sfuggire a una famiglia che la teneva prigioniera, impedendole di vivere come si vive in Occidente?
Hina voleva solo essere italiana, ma l'Italia anche oggi non è stata degna di lei. Ascoltate le parole del procuratore capo Tarquini, pure soddisfatto dopo la condanna, «una sentenza equa e giusta per questi uomini che in fondo sono loro stessi vittime, ma vittime da condannare. Alla base del delitto ci sono un misto di onore e cultura religiosa intrecciati.

Il padre e i cognati hanno visto la loro moralità lesa. Ma c'è anche una violazione della propria impostazione religiosa e della propria visione del mondo». Capito? La nostra visione, quella che Hina voleva sposare, ce la possiamo ricacciare in gola.

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