Il commento Abu Mazen si gioca tutto con le elezioni

Se sullo sfondo non si udisse risuonare a Ramallah lo squillo del telefono proveniente direttamente da Obama, il gesto di Abu Mazen, al secolo Mahmud Abbas, il presidente palestinese, di indire le elezioni presidenziali e parlamentari per il 24 di gennaio potrebbe avere un che di seriamente masochista. Ma due giorni fa il presidente americano ha telefonato per rassicurare Abbas sul suo sostegno per un futuro Stato palestinese, e, in sostanza, per dargli il suo appoggio. Gli americani sono stati messi a parte per tempo, e forse lo hanno anche ispirato, del giuoco durissimo in cui Abbas aveva intenzione di mettersi con la mossa annunciata venerdì: il presidente palestinese deve aver detto al suo amico «se non tento di riportare Hamas a un atteggiamento meno strafottente la spaccatura crescerà a dismisura insieme alla sua forza. Tanto vale tentare di piegarlo prima che gonfi fino a sommergermi, richiamandolo al fatto che esistono le elezioni e che io sono il presidente». Abbas ha dunque detto al pubblico che le elezioni sono un obbligo costituzionale, che la legge lo mette in condizioni di non potersi esimere dal rimettere di nuovo il futuro della sua gente alle urne. Un punto molto dignitoso per ribadire la sua legittimazione democratica. Ha anche aggiunto che il fatto che Hamas sia contraria ad andare alle elezioni adesso dopo il fallimento dei colloqui di riconciliazione sponsorizzati da Mubarak (conclusisi pochi giorni fa con un sì di Abu Mazen, addirittura inviato al Cairo per fax, ma con un altro successivo no di Hamas) non esclude che l’Egitto da qui a poco riesca a stilare una carta di accordo buona per tutti. Abu Mazen lascia capire che in quel caso sarà malleabile.
Hamas intanto mostra la sua faccia più decisa e dice che le elezioni a Gaza non saranno tenute, e che in Cisgiordania saranno boicottate. L’accordo Fatah spera di poterlo dunque imporre con la forza del consenso internazionale e interno. Fatah mira innanzitutto a una rilegittimazione che faccia sentire Hamas un paria. Ma parte in svantaggio: negli ultimi tre anni i palestinesi sono andati a votare tre volte, e due volte hanno votato Hamas. Hamas ha vinto sia alle elezioni parlamentari che municipali nel 2006; nel gennaio del 2005 Hamas boicottò le elezioni presidenziali, e Mahmoud Abbas andò al potere. Se Hamas avesse partecipato, forse non avrebbe vinto neanche allora. A Gaza la vittoria di Hamas portò a una strage di uomini di Fatah e anche a una ingloriosa fuga di tutta la piramide dell’organizzazione battuta. Oggi, Abbas ha ritenuto di reagire con la sua audace decisione a una situazione che si deteriora di giorno in giorno: ultimamente, c’è stato il trionfo popolare riportato da Hamas per aver fatto liberare 21 prigioniere dalle carceri israeliane in cambio della cassetta con le immagini del soldato rapito Gilad Shalit; poi, la campagna mortale contro Abbas per il suo tentennamento nel sostenere all’Onu i risultati della commissione Goldstone sulla guerra di Gaza; in genere, l’accusa micidiale di essere un agente al servizio degli Usa e di Israele.
Abu Mazen deve essersi molto inquietato per il lancio di scarpe organizzato a Gaza contro la sua immagine e per il grottesco processo farsa di piazza con giudici e giuria che lo dichiarano colpevole fra le urla del pubblico. In genere, Fatah soffre la fama ottenuta da Hamas con il suo coerente atteggiamento integralista, antisemita, terrorista... Fatah ha perso punti perché la sua immagine di organizzazione invecchiata e corrosa dalla corruzione non si è modificata neppure con la grande Assemblea generale di Betlemme che non ha messo in circolazione nuove idee, ma ha fatto da palcoscenico persino ad alcuni antichi sodali di Arafat, responsabili agli occhi dei palestinesi e del mondo di violenze e corruzione finanziaria. Ai palestinesi non è piaciuto neppure vedere Abu Mazen a Washington sottoposto a un paternalistico incontro con Obama e Netanyahu dopo che aveva giurato che non avrebbe mai più rivisto Bibi fino allo stop degli insediamenti.


D’altra parte, però, Abbas teme di abbracciare il ruolo di leader moderato, e le sue prese di posizioni sono dure, dalla questione del ritorno dei profughi a Gerusalemme fino al rifiuto dell’esistenza di Israele come Stato ebraico. Senza contare la competizione interna, fra cui la più nota è quella con il primo ministro Salam Fayyad. Dunque, alle elezioni: Abu Mazen spera che questo crei un bel reset che riaccenda il suo motore.

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