Comunicazione interna

Ogni tanto escono delle classifiche sulle città in cui si lavora o non lavora di più (ultim'ora: la più fannullona è Parigi) e ci si dimentica che a fare la differenza forse è l'intensità delle ore lavorate, non tanto il loro numero. I miei amici romani trapiantati a Milano, per esempio, dicono che un’ora milanese ne vale tre romane, ma forse è un dibattito un po’ così. Il punto vero sarebbe capire perché il lavorare meno è diventato un disvalore. La maggior parte delle persone, oggi, vive assai meglio e guadagna indubbiamente di più di 25 anni fa, e tuttavia lavora sempre più freneticamente e ha diminuito drasticamente gli spazi e l’energia dedicati alla vita extralavorativa. È l'unico aspetto, questo, che nessun economista del passato aveva previsto: uno come John Keynes, per dire, negli anni Trenta pronosticò che nell’arco di un secolo l’economia occidentale sarebbe cresciuta almeno di otto volte (ci siamo quasi) ma nondimeno che avremmo potuto lavorare non più di una quindicina d'ore la settimana. Non è andata così. Oggi, dati alla mano, si lavora sempre di più, e non solo: più si è ricchi e più si lavora, più si è pagati e qualificati e meno si torna a casa.

Secondo Keynes, figurarsi, l'amore per il denaro sarebbe dovuto diventare «una propensione semipatologica» che il benessere avrebbe dovuto guarire. Non è andata così, è c'è di che riflettere: sulla persistenza di questa rubrica nel mese di agosto, per esempio.

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