Comunisti? Non possiamo permettercelo

D’Alema, che a differenza di altri non ha mai negato di essere stato comunista, lo sapeva: «Se votassero solo quelli che leggono libri e giornali non ci sarebbe partita, vinceremmo noi. Ma siccome vige il suffragio universale...». Per lui, il fatto che il Pd non abbia sfondato, che la sinistra sia rimasta fuori dal Parlamento e che operai e ceti popolari - quelli che «per definizione» dovrebbero votare i nipotini di Marx e Lenin - abbiano invece premiato non solo il Pdl ma anche l’aborrita Lega, non dev’essere stata una sorpresa.
Gli altri, come al solito, non hanno capito nulla. E sentenziano sprezzanti, come fa Gad Lerner, che il federalismo fiscale è un’invenzione verbale per dire «ognuno si tenga i suoi soldi» e che i richiami alle radici e ai valori tradizionali sono «inautentici e fasulli», strumentali al partito di Bossi per «cavalcare pericolosamente la xenofobia». Oppure strillano, come fa il Manifesto a proposito del Veneto, di «allarme per il crescente razzismo» e di «paure fittizie: gli albanesi che rapinano le ville». Capito bene? L’emozione suscitata dal massacro di due poveri custodi, torturati e uccisi in una villa vicino a Treviso da due clandestini albanesi, per i compagni è una «paura fittizia». E questo spiega più di mille parole il risultato elettorale.
No, non hanno capito niente. Ancora adesso continuano a parlare di «presunta questione settentrionale». A dipingere i leghisti alternativamente come macchiette o come pericolosi razzisti. A liquidare il fenomeno con una preoccupata alzata di spalle. Ma la verità è che la Lega li ha soppiantati proprio nel cuore di quella gente di cui si riempiono continuamente la bocca ma dei cui bisogni reali sanno pochissimo. Non è razzismo desiderare sicurezza, ma è difficile da capire per chi, dall’alto della torre d’avorio del suo ben protetto quartierino, parla solo per astrazioni e tra i «migranti» - com’è d’obbligo chiamare gli immigrati nei salotti buoni - non distingue il bravo lavoratore dal delinquente. Non è egoismo chiedere che i soldi versati in tasse ti ritornino sotto forma di servizi e infrastrutture in percentuali non troppo inique; ma vaglielo a spiegare a chi di servizi ne ha in abbondanza per censo, venera la categoria della «solidarietà verso il mezzogiorno» come un totem all’ombra del quale giustificare ogni forma di assistenzialismo e considera chi non la pensa come lui un evasore fiscale tout court.
I sindaci leghisti del Nord - i Gentilini, i Tosi, i Bitonci, i Prevedini - finiscono sui giornali, compresi quelli inglesi e spagnoli, per le loro iniziative più eclatanti e anche discutibili, come no. Ma è un abbaglio colossale ridurli al folclore della definizione: «sceriffi». Saranno brutti, sporchi e cattivi, ma in questi anni hanno saputo sintonizzarsi con la loro terra come nessuno, hanno interpretato e spesso risolto, almeno in parte, i problemi dei loro cittadini. I quali li apprezzano e li rispettano al di là delle (o nonostante le) loro «sparate». E ora questi amministratori sono la punta di lancia dell’ennesima riscossa leghista, la nuova classe dirigente di un Carroccio di lotta e di governo che, non a caso, tracima dalle tradizionali roccheforti e sfonda persino nella «rossa» Emilia Romagna. Dove le chiavi del potere sono sempre in mano agli ex pci, ma dove la gente normale si trova ad affrontare situazioni analoghe a quelle dei vicini veneti e lombardi.

E comincia a pensare che, forse, chi ancora sventola bandiere rosse tessute col cashmere o fa la predica dalla tolda dello yacht non gliela racconta poi tanto giusta.
Non a caso quelli della falce e martello sono quasi spariti: il fatto è che, per essere comunisti, oggi bisogna poterselo permettere. Gli altri, magari, votano Lega.
Massimo de’ Manzoni

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