«L’ascolto»: delle associazioni, dei comitati, dei centri sociali, dei gruppi, della mitica «gente», insomma della città. Tutta la campagna elettorale di Giuliano Pisapia è stata segnata dalla ormai stucchevole retorica dell' «ascolto». Peraltro anticipata, condìvisa e enfatizzata da quella schiera di fiancheggiatori che vanno da Tettamanzi ai giornaloni democratici. Va bene «l'ascolto », ma poi decidere, spero. Ebbene, per spiegarci cosa intenda per «ascolto», lunedì sera Pisapia, in occasione del suo debutto, ha convocato fans e militanti, oltre che nelle regolamentari tribune dell'aula consiliare, in piazza San Fedele, davanti ad un maxischermo da finale di Champions League, e nella sala dell' Alessi, dispensando risotto, naturalmente arancione. E com'era prevedibile, i tifosi hanno fatto il tifo, i fans hanno fatto la claque. Perciò tanti applausi a scena aperta durante l'intervento del neo-sindaco, soprattutto quando, attingendo a piene mani dal repertorio politicamente corretto, ha esaltato le masse convenute con espressioni molto generiche ma sempre gradite come «città più verde e più vivibile», «a misura di bambino», «mai più abitanti senza casa e case senza abitanti», «non lasceremo ai margini anziani e persone in difficoltà» e altre ovvietà del genere che chiunque potrebbe tranquillamente sottoscrivere. Meno ovvie e più inquetanti per il contribuente milanese sono state le illazioni pretestuose su un bilancio comunale in rosso e sulla necessità di rivedere il Pgt, premesse ad aumenti di tasse e tariffe e al blocco dello sviluppo della città. Ma se Pisapia aveva bisogno della claque, la sua claque aveva bisogno di questa demagogia per eccitarsi e applaudire. Come pure dell'orgoglioso e pacato intervento di Letizia Moratti per manifestare la consueta astiosa faziosità, fischiando e inveendo mentre l'ex sindaco parlava. Ma è chiaro che questa è la concezione della democrazia di una certa sinistra, la democrazia della piazza urlante. Nonostante il risotto quella piazza aveva qualcosa di sottilmente minaccioso ed evocava regimi assembleari. A Milano non si era mai visto niente di simile: quando a Palazzo Marino governava la sinistra seria, Aniasi o Tognoli o Pillitteri non si sono mai sognati di convocare in piazza Scala o in piazza san Fedele oceaniche adunate di militanti e sostenitori. Non si rivolgevano alla piazza ma al Consiglio comunale, vero rappresentante istituzionale della città tutta - altro che i comitati!- Consiglio che lunedì sarebbe stato praticamente ignorato (a che serve? c'è la piazza) se alla sua presidenza non fosse stato eletto un consigliere di lunghissimo corso come Basilio Rizzo, un altro ex sessantottino, già il più fazioso e manettaro degli oppositori, sempre desideroso di mandare in galera qualche avversario politico.
Ecco cosa intende Pisapia per «ascolto»: il rapporto diretto fra lui e il «suo» elettorato, un rapporto nel quale il Consiglio comunale rischia di risultare una istituzione antiquata, accessoria e formale. Ma non è forse questo uno dei peccati che la sinistra rimproverava a Berlusconi e a Bossi, di teorizzare e praticare, cioè, il legame diretto fra leader e popolo? Non è questo che chiama spregiativamente (e impropriamente) populismo? La piazza di lunedì evocava, in forma grottesca per una metropoli postmoderna, una scena da comune medievale. «Milanesi, fratelli, popol mio», così Pisapia avrebbe potuto cominciare, come Alberto da Giussano che si rivolge alla piazza nell'ode «Il Parlamento» o «La canzone di Legnano» di Giosuè Carducci, se l'evocazione non avesse un sapore pericolosamente leghista. La piazza come parlamento, dunque.
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