Consulta, era meglio se la cena non si faceva

La fatwa contro i giudici costituzionali Paolo Maria Napolitano e Luigi Mazzella - rei d’avere partecipato a una cena con Silvio Berlusconi, Gianni Letta e il Guardasigilli Angelino Alfano - è stata lanciata da Antonio Di Pietro: con l’immancabile corredo di termini insultanti tratto dall’abbondante repertorio dell’ex pm. A giudizio di molti questo vizio d’origine può bastare per privare d’ogni credibilità l’ennesima crociata contro il Cavaliere, come le precedenti presumibilmente votata al fallimento. Su queste colonne Salvatore Tramontano ha poi sottolineato con efficacia il doppiopesismo di Tonino da Montenero di Bisaccia. Potrei tacere a questo punto. Ma devo confessare che se lo facessi proverei una sensazione di disagio. Il fatto di cui si discute - e il tono con cui l’anfitrione della cena contestata, Luigi Mazzella, ne rivendica la legittimità - mi lasciano forti dubbi. So benissimo che se si va a frugare nei comportamenti recenti o passati o remoti di chi si atteggia oggi a critico di Berlusconi è facile trovarvi esempi a bizzeffe d’indelicatezze ben più clamorose e ben più faziose. Ma questo non basta per rasserenarmi. L’elencazione delle malefatte altrui - quando l’altrui s’impanchi a moralista e predicatore - è un valido argomento politico. Due colpe tuttavia non fanno, messe insieme, una ragione. La sinistra e settori importanti della magistratura hanno nei loro armadi innumerevoli scheletri di complice parzialità. Contro i loro pessimi usi e i loro abusi ci siamo pronunciati spiegando - quando con ipocrisia si rivendicava l’imparzialità sostanziale delle toghe a dispetto dei loro pronunciamenti ideologici - che il giudice non deve soltanto essere imparziale. Deve anche apparirlo. Credo, in mancanza d’ogni prova in contrario, alle affermazioni dei commensali, quando sostengono di non essersi per nulla occupati del “lodo Alfano” sul quale la Consulta dovrà pronunciarsi in ottobre. E non sono del parere che il sospetto sia l’anticamera della verità. È sovente l’anticamera della calunnia. Ma non mi pare sia stata opportuna la rimpatriata tra il presidente del Consiglio, due suoi importanti collaboratori e due giudici costituzionali. Berlusconi in persona, nell’auspicare la divisione non solo delle funzioni ma anche dello “status” tra giudici e pm, ha dichiarato d’augurarsi che in futuro pm e giudici si diano del lei e si comportino da estranei. Sono totalmente d’accordo. E però nella sua lettera aperta al Cavaliere il giudice Mazzella, legato a lui da una lunga amicizia, gli dà del tu. «Il conversare tutti assieme in tranquilla amicizia - scrive Mazzella - non mi sembra un misfatto». Infatti non lo è. Nulla, in quella cena, ha avuto carattere d’illegalità o di deliberata scorrettezza. Nulla autorizza a immaginare che nel corso di essa siano stati presi accordi o ideate trame. Semplicemente sarebbe stato meglio che non la si fosse organizzata. Vero quanto ha osservato in una dichiarazione al Corriere il presidente emerito della Consulta Piero Alberto Capotosti: «I giudici (costituzionali, ndr) prima della nomina, o addirittura immediatamente prima, possono ricoprire incarichi di governo e di partito e possono essere anche ministri, segretari di partito o semplici parlamentari. È logico... che abbiano avuto continui rapporti di lavoro o anche di amicizia con esponenti del mondo politico».

Ma altrettanto vero che in determinate circostanze la solitudine del giudice deve prevalere sulla convivialità dell’amico. Tanto per evitare equivoci e chiacchiere. E senza che debbano essere tirati in ballo «riunioni carbonare e piduiste», l’Ovra e i totalitarismi.

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