Così D’Alema vuol sgambettare Veltroni

Il ministro degli Esteri manovra a tutto campo dietro le quinte per convincere Marini o Amato ad accettare una sfida che sa perdente

Così D’Alema vuol sgambettare Veltroni

Roma - Alle otto della sera, che non è certo l’ora dei tori, è comparso taumaturgico tra una notizia e l’altra del compiacente tigìuno. Sfoggiava il sorriso al valium di chi ha la soluzione giusta: tranquillo popolo, ci penso io. E avendo la stoffa (o almeno se la sogna) del Migliore, ha reso edotti gli italiani che dovranno sorbirsi un governo ponte, retto probabilmente da Franco Marini del quale ha «sempre apprezzato l’impegno per il dialogo e il grande equilibrio». Con sprezzo del pericolo, ha auspicato per l’acerrimo nemico di un tempo, un «governo con una larga base parlamentare».

Ineffabile Baffino. Con un colpo di mano e di scena, s’è riproposto demiurgo e protagonista principale: ha forzato la mano al Quirinale, ha lanciato in pista un Marini riottoso ventilandogli la sostituzione con Giuliano Amato riserva sempre pronta, ha tirato un cazzottone all’inguine di Walter Veltroni, fratello/coltello di sempre. Perché? Forse per salvare il poco potere rimastogli nel partito, che uscirebbe annientato da questa legge elettorale, senza preferenze, che affida la designazione dei seggi sicuri alle sole mani di Veltroni assistito da Dario Franceschini. Ma ancor più, per infilare un cuneo mortifero tra Veltroni e Silvio Berlusconi.

Si sta giocando tutto, Massimo D’Alema. Ieri sera non s’è risparmiato nemmeno il rischio di rendere palese la trappola per topi che ha preparato. «Ora c’è una maggioranza chiara e le condizioni per andare avanti», disse con orgogliosa sicurezza incassando la fiducia per il suo governo germogliato sulle ossa del Prodi uno: 23 ottobre ’98, e non sapeva che avrebbe dovuto farne presto un altro, naufragando comunque dopo un anno e mezzo. A quanto pare, che «c’è una maggioranza» seppur nebulosa, comunque le «condizioni per andare avanti», l’ex presidente dei Ds, ex ministro degli Esteri e ormai pluri ex di tutto un po’, lo va spiegando con foga e passione a tutti. Anche ad Amato e Marini per convincerli a offrirsi soffrendo, a Oliviero Diliberto perché cambi il suo no in sì al «governo per le riforme», allo zio Giorgio perché non tremi e imponga la soluzione di «responsabilità». Stavolta, a differenza del ’98, D’Alema sa bene che non c’è una maggioranza e tanto meno le condizioni per partorire un governicchio a tempo, anche a comprar scampoli senatoriali o intingendo nel Gerovital i laticlavi a vita. Perché s’è lanciato allora in questa crociata? Perché in gioco non c’è la sua faccia; e se uno tra Eta Beta e il Lupo marsicano si lascia incantare e accetta, finendo inesorabilmente trombato ai primi vagiti, D’Alema avrà ugualmente vinto. Contro Veltroni, ovviamente.

Vi domandavate con angoscia dove fosse finito Spezzaferro, come mai in questa crisi appariva taciturno e defilato? Ecco dov’era, almeno ieri. A Palazzo Giustiniani per lavorarsi Marini: via, mettiamo una pietra sopra quel dissapore ormai lontano quando ti sfilai il Quirinale per darlo a Ciampi, stai ancora rimuginando che mi volevi morto? È il momento tuo Franco, dai che ce la fai, il ponte del tuo governo arriverà sino all’anno prossimo, sarà il coronamento della tua lunga carriera, e tra cinque anni chissà, potremmo riparare a quell’offesa sulla via del Colle. Stesso lavorìo ai fianchi di Amato, tra Viminale e la comune Fondazione: Giuliano, tu sei l’uomo dei momenti difficili, a te nessuno dirà di no, ti sei sacrificato dopo di me e non puoi tirarti indietro adesso, tra cinque anni si riapre la corsa al Quirinale. Con Diliberto, perché la smetta di fare il bastian contrario insistendo sulle elezioni hic et nunc, gli ci è voluto poco: dimenticate l’amicizia e i vincoli stretti nella Fgci, quand’erano giovani comunisti? E infine con Giorgio Napolitano, che a Massimo non ha mai detto no, è sempre stato lo zio buono e compiacente che lo benediceva contro Achille Occhetto e s’è schierato sempre con lui contro Walter.

Ricordate la corsa alla segreteria del Bottegone, con Walter in testa su una valanga di fax? Intervenne Napolitano e l’apparato di partito ribaltò il risultato, Massimo fu incoronato segretario. Romolo e Remo, sempre in lotta col sorriso sui denti e il pugnale nascosto nel curaro. Ha sempre vinto il Romolo coi baffetti da questurino anni ’50, sino a questo giro del nuovo Partito democratico, in cui Remo sfolgorava nella rivincita. Aveva già sottratto a Romolo il controllo sui Ds persino in Puglia, e ora anche Anna Finocchiaro s’è scoperta veltroniana. Estinti i dalemiani? Romolo s’è risvegliato, e con un sol colpo scavalca Walter cercando vendetta su Berlusconi che lo piantò in asso dieci anni fa nella Bicamerale: provassero ora i due, con un governicchio abortito tra i piedi, a darsi appuntamento per le riforme dopo il voto.

Dite

che tutto ciò è scandaloso, è incredibile dover dipendere da vecchi pavidi e stralunati, piccoli leader rancorosi e vendicativi, nani senza ballerine? Dimenticate che sì, il nostro è un bel Paese. Ma non un Paese normale.

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